La Fionda

Grazie al femminismo le donne possono lavorare

È una credenza diffusa il fatto che grazie al femminismo le donne oggi vantano una serie di diritti o possono realizzare una serie di attività che prima del femminismo non vantavano né potevano realizzare: votare, studiare, divorziare oppure non sposarsi, comprare una macchina o una casa, ecc., argomento già trattato qui. Una di queste attività consiste nel lavoro. Secondo l’ente School of feminism, grazie al femminismo le donne possono lavorare. Questa asserzione falsifica la realtà ed è vuota di significato. In primo luogo, la valenza positiva che il femminismo attribuisce in questa asserzione al lavoro non corrisponde con l’idea che l’umanità – e molte persone ancora oggi in molte parti del mondo – ha avuto del lavoro lungo tutta la Storia. Il lavoro, inteso positivamente come realizzazione di sé e fonte di guadagno e di benessere, è una percezione nata soltanto nei tempi recenti nelle società benestanti e ricche, una visione privilegiata sorta a seguito dello sviluppo tecnologico e del miglioramento delle condizioni lavorative. In questo mondo, il lavoro ha acquisito a livello sociale e psicologico un’importanza fondamentale, in quanto fattore che contribuisce a definire il nostro rapporto con gli altri e la nostra stessa identità personale. Il fenomeno del pensionamento, a volte, e ancora più spesso la disoccupazione sono vissuti come un dramma, con delle conseguenze a livello di spaesamento e perdita di identità (senza tener conto dell’aspetto economico).

Per secoli invece, nell’immaginario collettivo, il lavoro è stato sinonimo di schiavitù, castigo e dolore, punizione divina (esplicita nella Bibbia solo per l’uomo: «con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita»), maledizione e penitenza per la sopravvivenza di sé e della propria famiglia. Secondo la concezione classica,  l’uomo libero doveva essere affrancato dal lavoro, gravame da lasciare agli schiavi, per disporre di tempo e ozio da dedicare alla contemplazione o all’attività politica. Scrive Aristotele: «Nello stato retto nel modo migliore e formato da uomini giusti […] i cittadini non devono vivere la vita del meccanico o del mercante (un tal genere di vita è ignobile e contraria a virtù) e neppure essere contadini quelli che vogliono essere cittadini…» (Politica, Libro VII). Ancora nel Medioevo, scrive Tommaso d’Aquino: «Il lavoro manuale ha quattro scopi. In primo luogo serve a procacciarsi di che vivere. […]  In secondo luogo ha lo scopo di far sparire l’ozio, da cui nascono molti mali […]. Terzo, deve frenare la concupiscenza, poiché mediante il lavoro si mortifica il corpo […]. Quarto, serve a fare elemosine» (Summa theologiae). La rivalutazione del lavoro avviene durante il Rinascimento, tramite la celebrazione della figura dell’homo faber fortunae suae, che rifiuta l’ozio e vive attivamente sia al fine di onorare Dio sia in vista del raggiungimento della propria felicità terrena. In questa maniera la cultura umanistica rinascimentale riscatta il lavoro dalla sua secolare condanna, idea ripresa da Hegel per il quale il lavoro fa emergere la dignità dell’uomo consistente nel suo essere un soggetto attivo, capace di dominare e plasmare la natura secondo le proprie finalità.

Le donne hanno sempre lavorato.

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Se questo è vero a livello teorico, ancora a lungo e in molti paesi per la nobiltà e le classi agiate l’onore continuerà a risiedere nell’ozio e nel tempo libero. Gli uomini di buoni natali nascondevano il loro lavoro quando le necessità costringevano loro a lavorare, basta pensare all’intera categoria degli hidalgos nell’impero spagnolo oppure ancora nell’Ottocento ai romanzi dello scrittore Honoré de Balzac come Le Père Goriot. Evidentemente nessuno dei pensatori che glorificava il lavoro, dal Rinascimento in poi, si sofferma sulle gravose condizioni lavorative, sugli aspetti disumanizzanti del lavoro, come faranno i movimenti operai dall’Ottocento in poi, che rivendicano la liberazione dal lavoro: il lavoro è una gravame dal quale occorre liberarsi per attingere una vita piena e veramente degna dell’uomo. Durante l’Ottocento le operaie cercavano nel matrimonio la liberazione dal lavoro e dalle loro misere condizioni di vita, cioè esattamente il contrario dal mondo descritto dalla narrazione storica femminista: il lavoro come liberazione e il matrimonio come schiavitù. Le donne single sono sempre state condannate per forza a lavorare lungo tutta la Storia dell’umanità. Durante la rivoluzione sovietica, afferma Larissa Lissyutkina: «l’emancipazione della donna sovietica non si basa sulla sua richiesta di lavorare. Al contrario, la liberazione è percepita da molte come il diritto di non lavorare». In breve, il mondo contemporaneo è riuscito a modificare radicalmente la concezione negativa del lavoro che dominava le società antiche, ma trasferire questa attuale concezione positiva del lavoro al passato storico, come fa l’asserzione femminista sopraccitata, è profondamente sbagliato. Se fosse vero che le donne non hanno mai potuto lavorare fino all’arrivo del femminismo, come prospetta l’asserzione, storicamente questa astensione dal lavoro significherebbe un privilegio non un’oppressione, stesso privilegio di cui godevano i sovrani e le classi aristocratiche.

In secondo luogo, ipotizzare, come fa l’asserzione, che storicamente le donne non abbiano lavorato fino all’arrivo del femminismo è una corbelleria inconcepibile. Lungo la Storia uomini e donne hanno lavorato interrottamente e in condizioni spesso spaventose. È vero che è sempre esistita universalmente la divisione del lavoro, alla ricerca dell’ottimizzazione della produzione. Agli uomini venivano assegnati i compiti fisicamente più gravosi, più intensi e più pericolosi. Persino nell’Unione Sovietica, paradiso della parità, la presenza delle donne nei lavori più duri, insalubri e pericolosi fu progressivamente vietata. Parlando di questi divieti, Gorbaciov dichiarò negli ottanta: «Un altro problema è stato l’impiego di donne in lavori estenuanti che sono pericolosi per la loro salute. Questo è un lascito della guerra in cui abbiamo perso un gran numero di uomini e che ci ha lasciato con una grave scarsità di manodopera ovunque, in tutte le sfere della produzione. Ora abbiamo iniziato ad affrontare questo problema seriamente». Nella Storia, la sofferenza e la mortalità sul lavoro sono state segni distintivi dell’universo maschile, ma questa realtà esula dal nostro intervento. Tutto ciò non toglie che le donne abbiano lavorato ininterrottamente come facevano gli uomini, e in condizioni molto dure che a noi oggi ci possono sembrare spesso inumane. Secondo la scrittrice Emilia Pardo Bazán (1851-1921) il lavoro, in queste condizioni, rendeva uguali uomini e donne: «In gran parte del territorio spagnolo, la donna aiuta l’uomo nei lavori dei campi perché l’uguaglianza dei sessi, negata nel diritto scritto e nelle sfere in cui si vive senza lavorare, è un fatto di fronte alla miseria del contadino, del bracciante o del colono».

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Il contributo femminista fittizio.

Molto probabilmente l’asserzione sopraccitata intende l’incorporazione della donna al mercato del lavoro dalla Rivoluzione Industriale in poi. Come tutti sappiamo, anche questo è falso. Durante la Rivoluzione Industriale le donne lavoravano e manifestavano per i loro diritti, assieme ai loro compagni operai, prima ancora della nascita del femminismo stesso. Le donne lavoravano nelle fabbriche, nei negozi di alimentari, nel servizio domestico, come cucitrici… spesso senza orari né diritti lavorativi, come gli uomini. Valga come semplice esempio le manifestazioni delle sigaraie della fabbrica di tabacchi di La Coruña (Spagna) del 1857, dove circa 4000 donne abbandonarono i loro posti di lavoro e si ammutinarono distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino: macchine, mobili, uffici… La proprietà dovette ricorrere a un distaccamento militare per reprimerle. Tutto ciò, prima ancora che ci fosse nemmeno una qualche avvisaglia di qualche idea femminista in Spagna. Le donne non furono incorporate al mercato di lavoro dal movimento femminista, ma da un uomo: Sir Richard Arkwright (1732-1792). Arkwright era un barbiere inglese semianalfabeta, fu nominato baronetto e accumulò la più ingente fortuna all’epoca mai realizzata partendo dal nulla: quasi due milioni di sterline dell’epoca – ennesimo esempio di uomo di successo senza studi, ennesima smentita delle lagnanze femministe che denunciano la carenza di studi per le donne come fattore determinante dei loro insuccessi. Grazie alla sua genialità, a lui si deve il brevetto del primo filatoio automatico (1769). Nel 1771 fonda Cromford Mill, il primo stabilimento alimentato tramite energia idraulica. La fabbrica iniziò impiegando 200 lavoratori. La maggior parte dei suoi dipendenti erano donne e bambini, con i più giovani che avevano solo 7 anni, e lavoravano in turni di tredici ore con una settimana di vacanza all’anno. Ecco il primo datore di lavoro femminista, prima dell’esistenza del femminismo stesso.

Infine, altre due brevi osservazioni sono da evidenziare. L’incorporazione delle donne al mercato del lavoro non ha comportato una diminuzione del numero degli uomini che lavora. In altre parole, le donne non lavorano oggi perché c’è stata una giusta ridistribuzione dei posti tra uomini e donne per risolvere l’oppressione storica femminile nell’assunzione al lavoro, lasciando a casa molti uomini. Il progresso e la crescita economica hanno aumentato la richiesta di lavoro e incrementato il numero di posti di lavoro, così le donne sono state progressivamente inserite. Secondo, non esiste una correlazione tra il femminismo e il tasso di occupazione femminile. Se stiamo a guardare i dati più recenti della Banca Mondiale, del 2023, nei paesi africani, dove il femminismo è sconosciuto, i tassi di occupazione femminile sono più alti dei tassi nei paesi occidentali e superfemministi. In Angola, ad esempio, il tasso di occupazione femminile è del 93% rispetto al 84% degli Stati Uniti o al 90% della Svezia, modello universale di paese femminista. Nell’intera Africa subsahariana il tasso è del 87%, rispetto all’82% dell’Unione Europea. Le donne hanno sempre lavorato, là dove non esisteva ancora il femminismo e là dove il femminismo ancora non esiste. In conclusione, ringraziare il femminismo per l’incorporazione delle donne al lavoro ha lo stesso peso che ringraziarlo per le otto ore lavorative al giorno, per il diritto di poter parlare al cellulare, di poter sciare sulla neve o per il caldo che fa d’estate.



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