L’Instituto Universitario de Investigación de Estudios de Género (Istituto Universitario di Ricerca sugli Studi di Genere) ha stilato una lista di 26 diritti o azioni che le donne oggi possono realizzare grazie al femminismo. Alcuni già li abbiamo esaminati, come sono il voto, il lavoro o lo studio. Eccone un altro: «Se sei una donna, grazie a una femminista… 11. puoi avviare un’impresa e puoi ottenere un prestito…; 13. possiedi una proprietà che è unicamente tua». Dunque, in questo intervento esaminiamo brevemente il diritto delle donne a intraprendere e a possedere delle proprietà. La prima obiezione che bisogna sollevare, come è successo con il voto, il lavoro o lo studio, è che il commercio, l’avvio di un’attività oppure il possesso delle proprietà sono stati attuati dalle donne diffusamente e universalmente, prima ancora dell’esistenza del femminismo stesso. La libertà di iniziativa e gestione economica femminile nelle alte sfere non è mai stata in discussione. Le sovrane, le aristocratiche, le badesse, le castellane erano investite dell’autorità feudale sui contadini dei loro possedimenti, amministravano il territorio, fondavano conventi e, se necessario, erano in grado di dichiarare guerra. Queste donne decidevano liberamente sul destino del loro patrimonio. Gli esempi storici sono pressoché innumerevoli e basterebbe una semplice conoscenza superficiale della Storia per essere in grado di citarne alcuni. Dunque, la summenzionata lagnanza storica non può essere riferita alle donne dell’élite ma, per forza, alle donne delle classi più umili. E non può essere nemmeno considerata universale. Già in alcune civiltà orientali, in Mesopotamia o in Egitto, per migliaia di anni le donne hanno potuto possedere beni e disporne a loro volontà, acquistarli, affittarli, prestarli, regalarli, venderli, commerciare e fare affari, liberare schiavi, comprarli o ridurre persone libere in schiavitù, fare contratti, gestire e amministrare…
Nella maggior parte delle civiltà la donna nubile, divorziata o vedova poteva acquisire proprietà e disporne liberamente, contrarre debiti, fare testamento e impegnarsi direttamente in attività economiche. «“Comprerebbe pecore, e con il guadagno si vide più ricca di tutte le sue vicine. Dopo pensò che con tutta quella ricchezza avrebbe sposato i suoi figli e le sue figlie […]”, immaginava doña Truhana in uno dei racconti di El conde Lucanor (XIV secolo). Un calcolo simile fecero le protagoniste delle favole La Lattaia ed il Vaso al Latte di La Fontaine (XVII secolo) o La lattaia di Felix Maria de Samaniego (XVIII secolo), basate sul racconto di Calila e Dimna (XIII secolo), che riproduce a sua volta un racconto di origine indù. La lattaia è una delle favole più conosciuta e riprodotta al mondo. Narra di una donna che immagina liberamente di arricchirsi facendo affari. In epoche molto diverse, autori e ascoltatori hanno ipotizzato e immaginato, senza meravigliarsi, una donna che faceva liberamente degli affari. In effetti, esiste una mole di testimonianze storiche di donne che commerciano, gestiscono le proprie attività e hanno sotto le loro dipendenze uomini e donne, trasmesse in un quadro di assoluta normalità. Non c’è niente di strano dunque se nel 600 d.C. circa, nella penisola arabica, il profeta Maometto fu assunto e lavorò per un’imprenditrice mercantile, la vedova Khadija, come cammelliere» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, a p. 427).

La disciplina della “coverture”.
Nell’immaginario collettivo di tutti, tranne che delle femministe, in diverse epoche e culture, le donne facevano affari e immaginavano di arricchirsi così facendo, nella più assoluta normalità. Quindi, forse le femministe intendevano riferire la summenzionata lagnanza unicamente alle donne sposate, al concetto del diritto anglo-americano noto come “coverture”, derivato dalla consuetudine feudale normanna, che stabiliva lo status giuridico subordinato della donna durante il matrimonio. Risulta però arduo estendere questo concetto universalmente a tutte le donne sposate, non mancano nella Storia esempi di donne sposate che gestiscono autonomamente i soldi e gli affari. La Bibbia, nel Libro dei Proverbi (Prv 31, 10-25), offre il modello della «donna virtuosa» sposata, pietosa e timorosa di Dio dedita alla famiglia, passaggio citato insistentemente da Lutero durante la riforma protestante. Questa donna sposata, che comanda gerarchicamente altre donne, le serve, guadagna denaro proprio, frutto del proprio lavoro; vende i sui prodotti al mercato o al mercante e investe il denaro, gestisce gli affari comprando dei terreni che fa coltivare per ottenere altri guadagni. È impossibile che le femministe della prima ondata, devote e cristiane (nel 1895 scrissero addirittura La Bibbia della donna), quando lamentavano la condizione storica della donna rispetto al commercio e al diritto di possedere delle proprietà, non fossero a conoscenza di questo modello biblico di «donna virtuosa» sposata.
Secondo il concetto di “coverture”, prima del matrimonio una donna poteva liberamente redigere un testamento, stipulare contratti, citare in giudizio o essere citata in giudizio, e vendere o donare i suoi beni immobili o personali come desiderava. Una volta sposata, tuttavia, la sua esistenza giuridica come individuo veniva sospesa sotto “l’unità matrimoniale”, una finzione giuridica in cui marito e moglie venivano considerati una sola entità. In questa entità il marito raramente doveva consultare la moglie per prendere decisioni riguardanti i beni, la donna era resa incapace di citare in giudizio o essere citata in giudizio o di redigere un testamento senza il consenso del marito e, a meno che non fosse stata presa una specifica disposizione separando i beni della donna da quelli del marito, privata del controllo su beni immobili e personali. In pratica, prima del matrimonio donne e uomini possedevano gli stessi diritti di possedere e gestire le proprietà, diritti che decadevano quando ci si sposava. Con il matrimonio le proprietà venivano amministrati dal marito – se prima le donne non avevano firmato un accordo di separazione di beni. Questo concetto venne progressivamente smantellato, prima ancora della nascita del femminismo stesso. Nel 1771, negli Stati Uniti, cinque anni prima della Dichiarazione di Indipendenza, lo stato di New York approvò la Legge (Act to Confirm Certain Conveyances…) che richiedeva al marito di ottenere la firma della moglie su qualsiasi atto relativo ai suoi beni prima di venderli o di trasferirli. Inoltre, imponeva che un giudice incontrasse privatamente la moglie per confermare il suo consenso. Tre anni dopo lo stato di Maryland passò una legge simile. A metà dell’Ottocento alcuni stati avevano già promulgato legislazioni che tutelavano più compiutamente il diritto di proprietà delle donne sposate, come quella dello Stato di Mississippi nel 1839, del Maryland nel 1843 o dell’Arkansas nel 1846, cioè prima che la Dichiarazione dei Sentimenti di Seneca Falls del 1848 denunciasse che l’uomo aveva sottratto alla donna «ogni diritto di proprietà, persino sui salari che essa guadagna».

L’argomento è stato già trattato qui: «Sappiamo che queste donne erano istruite e politicamente impegnate. Loro si muovevano in ambienti politici e sollevavano istanze politiche, come è la stessa Dichiarazione. È impossibile che loro non fossero a conoscenza delle legislazioni che venivano emanate e tutelavano le proprietà delle donne sposate nei diversi stati degli Stati Uniti. Persino nello stesso Stato dove ha luogo la Convenzione di Seneca Falls! Il Married Woman’s Property Act dello Stato di New York fu approvato il 7 aprile 1848, la Convenzione di Seneca Falls, nello stesso Stato di New York, ebbe luogo il 19/20 luglio 1848, tre mesi dopo. Queste donne dovevano per forza sapere di mentire! In questo caso è impossibile concedere il beneficio del dubbio. È impossibile che queste donne non fossero informate dei cambiamenti normativi che erano avvenuti nel proprio stato. Per dimostrare al mondo quanto le donne fossero vittime, «schiave», per colpa degli uomini, queste donne hanno preferito esagerare, o semplicemente mentire».
Infatti, la questione da porre non è se storicamente le donne abbiano potuto avviare un’attività o possedere delle proprietà, controversia assurda. È evidente che, in ogni epoca, in ogni città, in ogni paese, sono esistite donne ricche e donne povere, proprietarie e nullatenenti, imprenditrici, commercianti, venditrici, tenutarie di lavanderie, bische, case di tolleranza, alberghi… ed era noto e palese a tutti i contemporanei. Negarlo sarebbe assurdo. Persino le femministe della prima ondata dovevano conoscere le donne più ricche della loro epoca: come facevano le femministe americane a ignorare l’esistenza della miliardaria Hetty Green (1834-1916) o le francesi a non conoscere l’imprenditrice Madame Clicquot (1777-1866), la “Gran Dama dello Champagne”, che commerciava il suo marchio con lo stesso nome, “Veuve Clicquot” (vedova clicquot)? Queste lagnanze femministe sul divieto all’imprenditorialità femminile e al possesso di proprietà, universali e atemporali, senza fornire alcun contesto storico o chiarimento, sono solo falsificazioni storiche vuote di senso. Perciò, la vera questione da porre è: a quale scopo sollevare lagnanze così assurde e inverosimili? Perché le donne a Seneca Falls hanno mentito spudoratamente nella loro Dichiarazione? Quale potrebbe essere lo scopo di promuovere tali assurdità, esagerazioni o, addirittura, bugie?