«Gli uomini non parlano. Mai come in questo momento, gli uomini sembrano non avere le parole per “dire”: la loro paura e il loro smarrimento, la loro fragilità e i loro desideri. Coloro che per millenni sono stati i dominatori del mondo da tempo non lo sono più e oscillano continuamente tra inedite libertà offerte loro dalle donne e la nostalgia degli antichi privilegi. No, gli uomini non sanno ancora parlare di sé, ed è in questo silenzio che Iaia Caputo coglie una “condizione tragica del maschile”, che nella dismisura di una sessualità incapace di evolvere e nella scorciatoia della violenza ha le sue derive più preoccupanti». Ecco la sinossi dell’ennesimo libro femminista, Il silenzio degli uomini di Iaia Caputo, che cerca di salvare noi uomini dalla nostra assoluta inadeguatezza maschile. Essendo il sottoscritto per natura maschio, devo umilmente riconoscere di essere affetto da questo brutto vizio di riuscire a rimanere talvolta in silenzio, troppo laconico per gli standard femministi. E ogni sera mi chiudo in me stesso rimemorando nostalgicamente i vecchi tempi e «gli antichi privilegi», quando noi uomini ce la spassavamo remando nelle galee lungo i mari blu e costruendo piramidi sotto il sole abbronzante dell’Egitto. Che bei tempi ragazzi!
Noi uomini dobbiamo cambiare, dobbiamo assolutamente cambiare! Dobbiamo smettere di fare finta di essere forti, dobbiamo imparare ad essere sensibili, a esprimere i sentimenti, dobbiamo sviluppare la nostra intelligenza emotiva. Ecco il discorso di Emma Watson davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in occasione del lancio della campagna ONU HeForShe a settembre 2014: «Ho cominciato a mettere in dubbio le supposizioni basate sul genere tanto tempo fa, quando avevo 8 anni (…). Quando a 18 anni, i miei amici non erano capaci di esprimere i loro sentimenti (…). Ho visto giovani uomini affetti da malattie mentali, incapaci di chiedere aiuto per paura di apparire meno virili, o meno uomini. Infatti, nel Regno Unito il suicidio è la prima causa di morte degli uomini tra i 20 e i 49 anni, eclissando incidenti stradali, cancro e malattie cardiache. Ho visto uomini resi fragili ed insicuri dalla percezione distorta di cosa sia il successo maschile. Neanche gli uomini riescono a beneficiare dei diritti della parità di genere».
Ogni invito femminista all’ascolto è fasullo.
«Gli uomini non sanno ancora parlare di sé», ma… le donne sanno ascoltare? La verità è che le donne non vogliono un compagno sensibile ed emozionalmente presente per ascoltare, ma per sentirsi ascoltate e accolte. Nessuna compagna vuole sentire le lagne emozionali del compagno, per quello c’è già sua madre. Le donne non vogliono uomini che piangono, vogliono uomini che ascoltino, e magari risolvano i loro problemi. Secondo le summenzionate esperte del maschile, la chiusura maschile, le difficoltà che gli uomini hanno ad aprirsi emozionalmente, sarebbe la causa di una serie di effetti deleteri per tutti, uomini e donne, che andrebbero, nei casi più estremi, dalla violenza sulle donne fino al suicidio. Questa riprovevole caratteristica dell’identità maschile fa parte della nota mascolinità tossica, quindi gli uomini dovrebbero tentare di correggerla, non solo a beneficio delle donne ma anche a beneficio proprio. Le femministe insistono su questo punto, ripetono tutti i giorni e tutto il giorno che gli uomini devono aprirsi, che devono esprimere i loro sentimenti, nascosti, secondo loro, da un senso sbagliato di virilità, per non sembrare deboli. Bene. Fate la prova. La prossima volta che qualche femminista vi rinfaccia la vostra chiusura, fatele conoscere i vostri problemi maschili e i sentimenti che albergate riguardo a questi problemi. L’ultima volta che ho fatto un tentativo simile in un incontro mi hanno chiamato maschilista e mi hanno fatto zittire. L’appello femminista è fasullo. Il femminismo chiede l’apertura emozionale maschile, ma solo per mostrare disprezzo se non combacia con le loro aspettative ideologiche. A nulla serve esprimere i propri sentimenti quando non c’è nessuno dall’altra parte che li vuole ascoltare. A nulla serve chiedere aiuto se non c’è nessuno dall’altra parte che vuole soccorrere.
Un esempio? La rivista AG AboutGender (International journal of gender studies), dipendente dall’Università di Genova e guidata da un nutrito Comitato scientifico e redazionale di oltre un centinaio di accademici, perlopiù accademiche, di Università di ogni continente, lancia su Internet un invito a contribuire (call for articles) a «definire e studiare la manosphere». «Data la natura emergente di questo fenomeno», la rivista vuole «contribuire a una migliore comprensione della manosphere». Benissimo. Finalmente, vogliono conoscerci! Abbiamo mandato loro un testo, abbiamo spiegato loro quali sono le nostre problematiche. Il nostro testo è stato rifiutato perché, secondo i reviewers, non esiste e non può esistere «…una sorta di parallelismo tra “questione femminile” e “questione maschile”: due temi evidentemente non paragonabili o equiparabili». In altre parole, ci siamo lamentati troppo. I nostri lamenti maschili non rientrano nei loro standard. Il loro invito era fasullo, il loro preteso interesse di conoscere la manosphere una messa in scena. Nessun sito, blog, forum o piattaforma su Internet che si occupa della questione maschile in maniera non allineata alla narrazione dominante e che, secondo loro, era l’oggetto della ricerca, è stato contattato o invitato a collaborare. Nessuno. Ogni invito femminista all’ascolto, alla parità e alla collaborazione con l’universo maschile è solo di facciata, e si traduce in opposizione ai fondi per gli uomini vittime di violenza, in rifiuto dell’affidamento condiviso dei figli nelle separazioni, nell’estromissione delle vittime maschili dalle loro manifestazioni e giornate contro la violenza, eccetera.
Ci si risparmi il finto buonismo.
Dalla difficoltà maschile a esprimere i sentimenti si deduce erroneamente un’altra conseguenza, di notevole importanza: la mancanza di empatia degli uomini. Se gli uomini sono incapaci di esprimere le proprie emozioni, come possono riconoscere e capire le emozioni altrui? Come possono empatizzare con chi soffre se non sono in grado di esternare la propria sofferenza? Come può consolare il pianto colui che non sa piangere? Gli uomini sarebbero esseri aridi di sentimenti, freddi, emozionalmente sterili, senza empatia. Eppure gli uomini piangono spesso per compassione, empatizzano in questo modo con il dolore altrui, e più raramente lo fanno, come avviene nelle donne, per rimpiangere la propria disgrazia. Infatti, perché gli uomini dovrebbero piangersi addosso, se le loro lacrime saranno ignorate da tutti? Non importa che lungo la Storia gli uomini si siano spesi in sacrifici ammirevoli per i loro cari, né che abbiano mostrato profonda sensibilità, rispecchiata nella produzione di magnifiche opere d’arte, di letteratura e di musica, opere molto toccanti, commoventi e ineguagliabili, all’uomo è rimasta appiccicata la nomea di insensibile, al contrario delle donne che, secondo i più, sarebbero molto più sensibili ed empatiche.
Io, invece, la penso in maniera diversa, l’indisponibilità femminista (e femminile) ad ascoltare i problemi maschili dimostra una carenza di empatia terrificante. Le parole scritte da Iaia Caputo denotano tutto tranne che empatia. Dov’è finita la sofferenza maschile nella sua visione del mondo? Dov’è finito il dolore, il sacrificio storico degli uomini? Per lei, e per la narrazione femminista in genere la Storia maschile è in un soggiorno vacanza, tra gare sportive, spa e luna park. Vite privilegiate vissute naturalmente a scapito delle donne. Invece di fare la predica agli uomini, si chieda piuttosto Emma Watson come mai l’ONU promuove la campagna denominata HeforShe, ma non la speculare SheforHe. Si chieda piuttosto perché negli incontri organizzati dall’ONU non ci sono mai relatori che parlino dei problemi specifici dell’universo maschile, così come fa lei per i problemi specifici dell’universo femminile. Si chieda piuttosto perché a suo fianco non c’era un uomo a parlare di questi problemi maschili. E ci risparmi per favore il suo finto buonismo.