Riflessioni sulla tesi secondo cui gli uomini sarebbero diventati inutili: anzitutto dirò che è falsa, poi dirò che è vera e infine che è molto, troppo significativa. Imbarazzante. Che gli uomini siano diventati inutili è affermazione che non ha alcun fondamento né la minima verosimiglianza. Ad onta della meccanicizzazione universale, dell’automazione sempre più spinta e della invasività delle macchine e dei dispositivi, nella vita economica l’apporto maschile è ancora determinante e insostituibile. Nel settore primario, pesca, foreste e miniere sono ancora ambiti di assoluto monopolio maschile, mentre l’agricoltura e l’allevamento vedono le donne presenti in quota minoritaria. Tutta l’industria pesante, tutto il settore delle costruzioni e dei trasporti sono a loro volta dominio degli uomini.
La costruzione e la manutenzione di tutte le reti è in mani maschili: strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, acquedotti, gasdotti, fognature, linee elettriche e telefoniche. Si tratta di attività pesanti, rischiose e praticate all’aperto. Questo è il regno degli uomini, che è tale per natura, sia chiaro, per le ragioni esposte nell’articolo precedente. Muovendo la lancetta da questo versante verso le professioni sicure e protette (e perciò svolte sostanzialmente al chiuso) il numero delle donne cresce costantemente ed esplode in alcuni settori (sanità, scuola, banche…). Osservazioni banali che rendono ridicola l’idea della raggiunta inutilità maschile. Suggella questa verità (una vera pistola fumante) la sproporzione tra il numero ufficiale dei morti sul lavoro (96,5%) cui vanno aggiunti i morti “fuori dal lavoro” in attività produttive svolte in proprio (di cui si è parlato qui) come è stato il caso recente dei quattro uccisi dai vapori di mosto (morti lavorando ma non tali per l’Istat). Tutto ciò restando sul piano puramente economico-materiale, tralasciando quindi quello psicologico. Inutili dove?
Di fronte a un tale quadro vien da chiedersi come possa esser sorta l’idea stessa della raggiunta inutilità degli uomini. Eppure alcune ragioni ci sono e sono prospettiche. Nel suo sviluppo impetuoso la tecnica ha ridotto in ogni settore della vita produttiva, e già del tutto eliminato in alcuni campi, la necessità dell’applicazione della forza intensiva maschile. Se ne possono dare infiniti esempi. C’erano i portuali (i famigerati “scaricatori di porto”): ora con il joystick dalla sala comando si azionano le gru come giocattoli, roba da ragazzini. Il trend è in accelerazione e la prospettiva è chiara: si va verso l’abolizione totale di ogni necessità della muscolatura, del sudore e, in buona parte, della stessa propensione maschile al rischio. In tale prospettiva certissima il futuro robotico fagocita il presente e davanti a noi si presenta così l’era luminosa della… fine degli uomini. Fanno ancora qualcosina, è vero, ma la data di scadenza ormai incombe. Inutili.
Nello stesso senso opera poi un altro strabismo percettivo. Nella vita quotidiana l’opera tipicamente maschile si vede marginalmente e solo se la si vuol vedere. Se non si chiama il falegname, se non si ha bisogno del meccanico, se la caldaia non si guasta, si può ben pensare di non aver bisogno degli uomini, anzi di nessuno. Ciò che possediamo è stato ideato, costruito, predisposto a suo tempo lontano dai nostri occhi e se nulla si guasta si può salire sul trono della presunzione e della tracotanza pensando di non aver bisogno di nessuno. Si può gridare finalmente: «Meglio sole, solissime!». Se poi accade di notare muratori su un ponteggio (luogo privilegiato del catcalling), o sulla strada col martello pneumatico, o alla guida di un camion, istruiti da mezzo secolo di femminismo, pensiamo che là ci sono bensì i maschi, ma potrebbero esserci le femmine. Ci sarebbero se “i ruoli di genere” e gli “stereotipi” patriarcali non impedissero loro di esserci. Per vedere camioniste scaricare tondini basterà attendere la fine del patriarcato. Sono queste le ragioni che stanno alla base del grido trionfale: «Inutili, siete inutili!».
Di questo grido si fanno megafoni fior di filo-psicologi e scienziati, tra i quali è doveroso ricordare Telmo Pievani, che fa risalire la ridicola inutilità del maschio almeno al Cenozoico. Ed è qui che viene il bello perché immediata sorge la domanda: inutili a chi? Superflui per chi? Inutili a se stessi non possono essere, perciò se sono “inutili” lo sono per le femmine. Il metro di misura degli uomini è dato dunque – ma guarda un po’ – dall’utilità che le donne ne traggono, sono i benefici che esse ottengono a determinare il valore di questa parte del mondo, di Questa metà della Terra. Il diritto di star qui dipende dall’utilità che ne viene alla parte migliore dell’umanità, perciò, diventati inutili per essa e quindi ingombranti, si lascia agli interessati trarne le dovute conseguenze: non forse è l’ora di andarsene? Se ha il diritto di esistere solo ciò che è utile alla donna bianca della classe agiata occidentale, cosa ci stiamo a fare qui? «Inutili!», voce dal sen fuggita, dal cuore empatico e amorevole del femminismo.