di Fabio Nestola. Mi vedo costretto a riconoscere la puerile ma profonda saggezza contenuta nei temi dei bambini di Arzano: “la giustizia è uguale per tutti, ma per qualcuno è un po’ più uguale” (Marcello D’Orta, “Io speriamo che me la cavo”). Esiste oggi, e spadroneggia indisturbata, una giustizia che usa i codici per trovare una giustificazione a decisioni preconfezionate, una giustizia autopoietica che usa se stessa per legittimare decisioni grossolanamente inique, funzionali a conservare il proprio prestigio, la propria incontestabilità, la propria incontrollabilità. Il Potere, quello con la P maiuscola. Il termine giustizia si sta sempre più avvicinando a giustificazione dell’inverosimile, purché funzionale agli scopi del sistema. Il nostro attuale sistema-giustizia si conforma alle regole imposte da quella che voglio identificare come giustizia-diritto, mentre la giustizia-equità (che poi è ciò che corrisponde alle legittime aspettative della popolazione) è solo la componente mitologica dell’intero sistema. La giustizia-diritto rappresenta la giustizia formale e quindi l’ufficialità, la giustizia-equità invece rappresenta la giustizia sostanziale, una chimera ufficiosa.
Traslando il concetto all’interno del Diritto di Famiglia, dobbiamo pensare che ai figli verrebbe da ridere, se non avessero seri motivi per piangere, nel vedere ciò che la giustizia-diritto spaccia per loro interesse, loro desideri e loro esigenze. È possibile dimostrare concretamente come quella che oggi viene propagandata come tutela dei minori sia in realtà una neanche tanto nascosta tutela del genitore affidatario ed autopoiesi del sistema-giustizia. Analizziamo nel dettaglio un esempio. Come è noto, l’ex casa coniugale viene sistematicamente data in assegnazione al genitore affidatario, indipendentemente dal titolo di proprietà. Questo significa che la coppia può essere in regime di comunione come di separazione dei beni, che l’immobile può essere stato acquistato da entrambi o da uno solo dei coniugi, che può essere di proprietà di uno dei coniugi anche da data precedente al matrimonio, in ogni caso si avrà lo stesso risultato: salvo che il genitore affidatario non decida diversamente, conserverà il diritto di tenere per se l’immobile e il genitore non affidatario se ne allontanerà entro un periodo da definire, asportando solo gli effetti personali.
Gli enormi sacrifici, anche se unidirezionali, vengono richiesti nell’interesse dei figli.
Il principio applicato in tale decisione è quello secondo il quale i figli nella scissione del nucleo familiare vivono già un trauma da distacco da una delle figure di riferimento, quindi si cerca di evitare che si sommi un ulteriore trauma da distacco dall’intero ambiente nel quale sono abitualmente inseriti: la scuola, le maestre e i relativi metodi di insegnamento, il pediatra, la rete amicale, i compagni di classe, eccetera. Cambiare casa significa anche cambiare vita, quindi la decisione di lasciare i figli nella casa che hanno sempre abitato è dettata dal proposito di lasciare ai minori quanto di più familiare e rassicurante ci sia oltre i genitori stessi. In realtà il contesto abituale dei minori non è un insieme di muri ma un insieme di relazioni, tuttavia una giurisprudenza consolidata ama molto considerarlo in chiave logistica: la casa, la cameretta, il cortile, il quartiere. Nell’immobile risiede chi ne ottiene l’assegnazione ma il titolo di proprietà rimane invariato, quindi anche eventuali residui di mutuo, pertanto la legge lascia intravedere uno spiraglio: in teoria al raggiungimento della maggiore età dei figli il reale proprietario potrà rientrare in possesso del suo bene del valore di centinaia di migliaia di euro, in alcuni casi di milioni. Si tratta di aspettare 14, 16 o nella peggiore delle ipotesi 18 anni, poi si potrà tornare ad abitare nella propria casa. Nella realtà non è così.
È possibile prolungare di diversi anni l’assegnazione del tribunale, almeno fino a quando i figli, pur se maggiorenni, proseguano negli studi e ancora non si siano resi indipendenti economicamente. Tutti i più recenti sondaggi testimoniano la preoccupante tendenza dei figli a rimanere in casa oltre la soglia dei trent’anni (cfr. Annuari ISTAT, Rapporti Italia Eurispes), quindi… Di fatto chi vede la propria casa assegnata all’ex coniuge non ne rientrerà più in possesso grazie ad un diritto riconosciuto in tribunale: non esistono sentenze che impongono al coniuge assegnatario di lasciare l’immobile entro 30 giorni perché “il suo tempo è scaduto”. Si tratta quindi di decisioni che comportano un enorme sacrificio per chi ne viene penalizzato, però è positivo che tali decisioni considerino prioritaria l’esigenza dei figli minori. Uno dei genitori ne gode tutti gli enormi benefici di carattere sociale ed economico; l’altro genitore subisce esclusivamente le ripercussioni negative, sia sociali che economiche, oltre al trauma e alle difficoltà oggettive di essere allontanato dai figli. Però gli enormi sacrifici, anche se unidirezionali, vengono richiesti nell’interesse dei figli. La casa rimane a chi ha i figli poiché sarebbe gravemente traumatizzante sradicarli dall’ambiente a loro familiare, tutto il resto non deve avere importanza.
Le regole vengono applicate a senso unico.
Molti accettano di malavoglia di perdere la casa ed accettano ancora più di malavoglia alcuni effetti collaterali che questo comporta, ad esempio che nella propria casa viva il/la nuovo/a compagno/a dell’ex coniuge, che usi il proprio bagno, il proprio letto, le proprie stoviglie, la propria biancheria, spesso anche i propri figli. C’è però il ruolo degli avvocati che, a monte, fanno abortire ogni proposito di rivalsa sconsigliando i propri assistiti dall’intraprendere azioni legali tese a rientrare in possesso del proprio bene: “sarebbe una inutile perdita di tempo e di denaro, la legge è così e deve sopportare perché è nell’interesse dei suoi figli”. Fin qui la giustizia-equità e la giustizia-diritto coincidono. Dove iniziano a non coincidere più, possono diventare destabilizzanti fino a minare l’equilibrio degli individui. Se, ad esempio, il coniuge affidatario che ha ottenuto l’assegnazione dell’ex casa coniugale intreccia un legame affettivo con una persona che risiede in altra città, proviamo a vedere cosa accade. È libero di trasferirsi nella città del/la nuovo/a compagno/a, portando con se i figli? È libero di sradicare i figli da quel contesto abituale in nome del quale aveva ottenuto l’assegnazione dell’immobile, proprio per evitare che ne venissero sradicati? È libero di decidere autonomamente, secondo le esigenze del momento, cosa sia o non sia giuridicamente traumatizzante per i propri figli? È libero di ostacolare irreversibilmente i rapporti tra i figli ed il genitore non affidatario, mettendo fra loro centinaia di chilometri? La risposta a tutte queste domande è: si, è libero di farlo.
“Ma come”, si chiedono migliaia di genitori non affidatari, “se da casa li sradico io è un evento traumatizzante, se a farlo è il genitore affidatario diventa una procedura normale?”. Non è facile dare una risposta logica perché in queste come in altre decisioni, della logica e della giustizia-equità non esiste traccia. Secondo i più elementari dettami del buonsenso e, soprattutto, visto nell’ottica dei minori, non ha alcun rilievo chi operi delle scelte traumatizzanti, l’importante è che tali scelte non vengano operate da nessuno. Invece il nostro sistema-giustizia si preoccupa di contrastare un comportamento nella misura in cui tale comportamento viene anche solo richiesto da una determinata categoria di cittadini (i genitori non affidatari), mentre è pronto ad avallare identico comportamento se a richiederlo e metterlo in atto è un’altra categoria di cittadini (i genitori affidatari). Con buona pace dell’imparzialità, dei diritti dei minori, delle pari opportunità, del principio stesso di giustizia. È possibile digerire molte decisioni, anche penalizzanti, se però fanno capo ad una normativa equa, valida per tutti gli individui indipendentemente da sesso, religione, etnia e ceto sociale. Se invece ci si accorge che le regole vengono applicate a senso unico, allora diventa estremamente difficile accettare le decisioni che al primo impatto apparivano pesanti, ma giustamente motivate.
“Lei da domani deve cercarsi una nuova abitazione”.
Migliaia di ricorsi hanno intasato i tribunali chiedendo che, nell’interesse del minore, venisse impedito all’ex coniuge di trasferirsi portando con sé i figli e quindi togliendo loro tutta quella sicurezza, quella stabilità e quei punti di riferimento che solo poche settimane prima sembravano fondamentali e inalienabili, come stabilito dallo stesso tribunale. È in pericolo anche il valore aggiunto costituito da tutto l’ambito parentale. Cambiando città si diradano inevitabilmente o si perdono del tutto i rapporti dei bambini con quanti erano soliti frequentare: nonni, zii e cuginetti non possono certo trasferirsi in blocco quindi altri valori vengono irrimediabilmente minati. Data la tenacia dei nostri magistrati nel rimanere ancorati al modello di affido esclusivo, si prova quindi a chiedere l’inversione del genitore affidatario dei figli. Se tanta importanza assumono la casa, la scuola e le amicizie, allora si lasci ai bambini la possibilità di non spezzare questi legami rimanendo nella stessa abitazione col genitore che non si trasferisce, lasciando libero l’altro di vivere le proprie esperienze come preferisce, con chi preferisce e soprattutto dove preferisce. A migliaia di persone che, credendo di seguire logica e la giustizia-equità, hanno tentato questa strada, è stato risposto: “per carità, l’affidamento a quel genitore non si tocca! In quanto al divieto di trasferirsi non possiamo neanche parlarne perché si tratterebbe di una grave limitazione della libertà personale; il genitore affidatario è quindi libero di andare dove crede ed i figli lo seguiranno, nell’interesse dei minori”. Ecco il ruolo della giustizia-diritto.
Orientarsi nei meandri dei codici per trovare una giustificazione a quello che è il reale obiettivo del sistema-giustizia: tutelare gli interessi del genitore affidatario, utilizzando il paravento della tutela dei minori. Le acrobazie interpretative tirano in ballo l’impossibilità di limitare la libertà personale, mentre tale principio non ha trovato applicazione al momento di dire al genitore non affidatario che aveva 30 giorni per trovarsi un’altra sistemazione. Anche il non affidatario ha subito una gravissima limitazione della propria libertà, ma in quel caso (perché solo in quel caso?) le esigenze personali devono passare in secondo piano rispetto a ciò che la giustizia-diritto ha deciso essere il prioritario interesse dei minori. L’acquisto della casa rappresenta una tappa di grande importanza nella vita delle famiglie ed è innegabile che al momento di scegliere l’appartamento nel quale vivere una coppia prenda in considerazione diversi parametri: uno è sicuramente il costo, ma gli altri sono la zona servita da mezzi pubblici, la vicinanza con ospedali e farmacie, esercizi commerciali, luoghi di culto, luoghi di svago, infrastrutture sportive, verde pubblico etc., secondo gusti ed esigenze personali. Dire al genitore non affidatario “lei da domani deve cercarsi una nuova abitazione”, oltre ad avere un costo altissimo che in molti casi è impossibile affrontare, mette in discussione tutte le certezze sulle quali si era impostata la propria vita, stravolge le abitudini, i tempi e gli equilibri faticosamente conquistati.
La negazione di ogni più elementare dottrina giuridica.
Abbiamo già appurato che cambiare casa rappresenta una spallata alle abitudini di vita. Tale imposizione costituisce una grossa limitazione della libertà personale che però nessun giudice prende in considerazione quando la misura limitativa viene applicata al genitore non affidatario. L’assurdità e le contraddizioni della Giustizia-Diritto escono allo scoperto: si privilegia l’esigenza di un adulto, il genitore affidatario, a scapito dei diritti dei figli così strenuamente difesi al momento di stabilire a chi doveva essere assegnata una posizione di vantaggio. Tutto avvalora la tesi secondo la quale la tutela degli interessi dei minori non è altro che una cortina fumogena dietro la quale si nasconde la tutela del genitore affidatario. Il genitore affidatario ha interesse ad ottenere l’ex casa coniugale e tutto quanto in essa contenuto? Niente di più facile, la otterrà in nome dell’interesse dei figli. Lo stesso genitore dopo pochi mesi non ha più interesse a rimanere nella casa e vuole trasferirsi altrove per motivi personali, affettivi, lavorativi o altro? Potrà farlo perché ciò che prima era l’interesse dei figli ora non è più tanto importante, prevale l’interesse del genitore stesso e l’interesse dei figli si trasforma, diventa quello di seguire il genitore che parte. Eppure i figli sono gli stessi, è possibile che cambino le loro priorità se cambiano i desideri del genitore affidatario? Può un tribunale permettere, avallare ed incoraggiare una simile strumentalizzazione ? Chi è che alimenta la conflittualità ?
In alcuni casi sarebbe traumatizzante per i figli essere allontanato dal contesto abituale, in altri casi della basilare importanza del contesto abituale non si trova traccia, quindi per garantire libertà di azione al genitore affidatario è più comodo che un’altra cosa diventi traumatizzante per i figli: allontanarsi dal genitore che sceglie di trasferirsi. Non viene mai sottolineato l’evento traumatizzante dell’allontanamento forzato dal genitore non affidatario, del quale viene implicitamente ribadito il ruolo assolutamente marginale nella vita dei figli. Secondo le esigenze del genitore affidatario si stabilisce cosa sia, al momento, traumatizzante per i figli. Potrebbe sembrare una bonaria indulgenza del sistema-giustizia nei confronti di chi ottiene la custodia dei figli, come se affidatario fosse sinonimo di meritevole, rispettabile, probo, insomma “migliore dell’altro”. È da proteggere in un bozzolo, perché è questa la consuetudine ed inoltre è estremamente remunerativo in termini di consenso; contro il genitore non affidatario invece è lecito accanirsi, anche questo è ormai consuetudine ed inoltre garantisce di non innescare grossi scandali in quanto è impopolare solo l’intromissione nel legame figli-genitore affidatario. In realtà è molto più di bonaria indulgenza, perché ancora una volta siamo di fronte alla scelta preferita dai nostri tribunali: due pesi e due misure, la negazione del concetto stesso di giustizia. Sembra essere la negazione di ogni più elementare dottrina giuridica: come se in una rescissione di contratto la penale venisse addebitata alla parte che continua ad onorarlo e non alla parte inottemperante.
Significa perdere i figli, è questa la consapevolezza che lentamente matura.
In un Paese libero ognuno è padrone di prendere le decisioni che ritiene più opportune, ma deve anche sapere che se ne assume le responsabilità e ne dovrà pagare le eventuali conseguenze. Invece per quanto riguarda le separazioni e l’affidamento dei figli minori questo non vale: il genitore affidatario è padrone di prendere le decisioni che crede, le più convenienti per sé anche se nocive per i figli, tanto ha la garanzia che le conseguenze negative saranno sempre a carico dell’altro. E dei figli. Tutto questo, non essendoci il coraggio di chiamare le cose col loro vero nome, viene spacciato per tutela dei minori. È la logica giuridica. Tornando alle similitudini con le inadempienze contrattuali, il matrimonio è un contratto, con tutto il rispetto per chi lo considera anche un sacramento. Un contratto non è vincolante a vita ma può essere rescisso. Comporta una penale per chi decide di non rispettarlo, una sorta di risarcimento per la parte lesa che invece vorrebbe continuare ad onorarlo. Pensiamo alla caparra confirmatoria che viene persa in caso di ripensamento prima del rogito per la compravendita di un immobile, o ai contratti dei calciatori che prevedono penali milionarie in caso di trasferimento prima della scadenza del vincolo con le società che li acquistano. Tutto è rinegoziabile, basta pagare.
Invece nel matrimonio funziona diversamente, paga (non solo economicamente) chi la decisione la subisce. Vediamo come. La coppia fa delle scelte ed in base a tali scelte imposta la vita della famiglia. Uno dei coniugi, come nel caso raccontato stamattina, vuole andarsene in un’altra città? Lo faccia pure, ma dovrebbe essere chiaro che la sua decisione riguarda lui/lei e basta, non può imporla anche ai figli costringendoli a trasferirsi e a perdere i rapporti con l’altro genitore ed ogni punto di riferimento della loro vita. Non potrebbe, in sostanza, pretendere di fare una scelta imponendo a tutti gli altri di pagarne le conseguenze. Ed invece è proprio questo che accade. Le riduzioni drastiche delle frequentazioni con i figli non vengono subite dal genitore che stravolge il contesto abituale della famiglia, ma da quello che vi rimane, che inoltre deve assumersi gli oneri economici e logistici della frequentazione, seppure drasticamente ridotta. Un trasferimento da Firenze a Latina, ad esempio, significa rendere impossibili gli incontri infrasettimanali. Significa cancellare del tutto la partecipazione a qualsiasi attività scolastica ed extrascolastica dei figli, colloqui con gli insegnanti, la recita di Natale, la mostra di disegno, il saggio di danza. Significa fare centinaia di km ogni weekend e costringere anche i figli a lunghi tragitti, col risultato che dopo qualche replica di tale tortura sono i figli stessi a venire malvolentieri perché passano più tempo in macchina che a casa del genitore allontanato. Sempre se poi il weekend possano venire, se non abbiano impegni domenicali connessi alle attività extrascolastiche, come la partita di pallavolo o il torneo di tennis. Significa averli persi, è questa la consapevolezza che lentamente matura.
Un genitore ha deciso di trasferirsi, che tutti gli altri si arrangino.
Sarebbe almeno opportuno che i tribunali sviluppassero la consuetudine di delegare al genitore affidatario l’onere di accompagnare e riprendere i figli dal loro contesto abituale, vale a dire dalla città nella quale vivevano e dalla quale li hanno sottratti, ops…, trasferiti. In deroga alla consuetudine consolidata, cioè che sia sempre il genitore non affidatario a doversi occupare di prendere e riportare i figli dall’affidatario. Ulteriore sottolineatura, questa, del costante non-detto che permea le separazioni: i figli sono “proprietà” dell’affidatario, l’altro se proprio vuole vederli deve organizzarsi per esercitare il suo diritto di visita. A sua cura e spese. Auto, catene d’inverno, carburante, autostrada; oppure aereo per abbattere i tempi di percorrenza, ove le città di arrivo e partenza siano provviste di aeroporto; altrimenti treno locale da Latina a Roma, poi Freccia da Roma a Firenze sperando che gli orari di Trenitalia permettano le coincidenze. Oltretutto l’esempio Latina-Firenze non è il più estremo, esistono centinaia di casi concreti sull’asse Modena/Brindisi, Torino/Salerno, Bergamo/Frascati, Milano/Sassari, Roma/Trieste, Parma/Roma, Vasto/Gorizia, Catanzaro/Lecce, Monza/L’Aquila, Genova/Napoli, Arezzo/Catania o, come nella situazione terrificante raccontata stamattina, Valle d’Aosta/Campania. In situazioni simili (sono tante, molte più di quanto si possa credere) gli incontri genitori-figli si riducono alle vacanze estive. Un genitore ha deciso di trasferirsi, che tutti gli altri si arrangino: questa è la tutela dei minori nel nostro Paese.
NdR: quanto precede è l’estratto di un libro intitolato “Perché i giudici non sono bambini”, autore Fabio Nestola stesso, nel 2014). Ciò a significare che nel corso di 6 anni nulla è cambiato.