Vi siete mai soffermati a pensare in modo analitico al politicamente corretto? È un’avventura intellettuale affascinante, con esiti che possono lasciare senza respiro per le risate, specie dopo le ultime novità provenienti dagli USA. Lì il noto e autorevole giornalista David Brooks ha pubblicato di recente sul New York Times una riflessione che porta un’innovazione straordinaria: l’inserimento di una nuova categoria di vittime oggetto di discriminazioni, ossia i brutti. Non manca il termine per definire la questione: lookism, intraducibile in italiano. In soldoni vuole indicare una discriminazione basata sull’aspetto delle persone (“look” in inglese) e nella pratica indica la tendenza sociale a privilegiare i belli a discapito di chi ha un aspetto ordinario o non gradevole. Brooks non ha dubbi: si tratta di un’ulteriore sembianza, tra le tante, che può assumere la mentalità discriminatoria, un altro modo per disseminare sofferenza e infelicità in gruppi minoritari ben identificabili.
Eppure, dice Brooks, non mancano gli studi sulla questione. I non belli, è stato rilevato, hanno meno chance di trovare un lavoro, di superare un colloquio di assunzione e di essere promossi a scuola; il loro divario salariale con i belli è pari o maggiore di quello fra i bianchi e gli afroamericani; i brutti guadagnano in media 63 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai belli, perdendo complessivamente nel corso della loro vita quasi 250.000 dollari. Non solo: gli individui più attraenti hanno anche maggiori probabilità di ottenere prestiti bancari e di godere, su questi, di tassi di interesse agevolati. Le persone più attraenti, in aggiunta, sarebbero automaticamente considerate più competenti e intelligenti. C’è anche l’aspetto giudiziario: i criminali non belli che commettono reati minori tendono a essere puniti più severamente dei belli implicati nei medesimi guai giudiziari. A peggiorare il tutto è l’intera impostazione culturale che celebra in modo ossessivo la bellezza, ignorando gli effetti devastanti che possono ricadere su chi non ne rispetta i canoni.
Sì, ma allora gli Incel?
Sul banco degli imputati ci sono da un lato l’approccio istintivo degli esseri umani, che porta automaticamente a favorire di più chi ha un aspetto gradevole: un aspetto talmente connaturato da rendere difficile la presa di coscienza di questo tipo di discriminazione. Dall’altro ci sono i media e i grandi brand, che indulgono troppo spesso alla canonizzazione della bellezza. Per questo, secondo Brooks, bene ha fatto Victoria’s Secret a sostituire le sue usuali modelle dee con cozze e scaldabagni in forma umana, e tutti dovrebbero prendere spunto. Questa nuova frontiera del progressismo liberal e del relativo politicamente corretto, secondo il giornalista, può essere raggiunta e superata se si colmasse un vuoto organizzativo: servirebbe insomma una “associazione dei brutti” che si impegnasse a fare campagne di sensibilizzazione contro il lookism. Perché le minoranze oppresse ma inesistenti non sono ancora abbastanza: le donne, i non-eterosessuali, le persone grasse, quelle di colore, quelle asiatiche, quelle con disabilità, quelle di una determinata religione, quelle anoressiche, i vegetariani, i vegani, e via elencando. A tutte queste minoranze, non di rado organizzate in lobby, è ora di aggiungerne un’altra: quella dei brutti.
Abbiamo detto all’inizio che tutto questo può far venire le coliche dal ridere perché, a pensarci, la lista delle non-minoranze finto-vittime e tutt’altro-che-oppresse rischia di essere talmente infinita da prefigurare un mondo così rapidamente regredito da ristrutturarsi in un sistema di tribù in competizione per chi è più discriminato. Ma non solo: il politicamente corretto progressista è così preda dell’ansia di individuare nuove minoranze da tutelare da aver fatto il giro completo ed essere arrivato al suo antipodo, cioè gli Incel. I quali da anni dai loro forum e siti denunciano, tra le altre cose, proprio la sussistenza del “lookism” e i suoi effetti devastanti. Non si costituiscono in associazione o in lobby perché sostanzialmente si vergognano del proprio status, aggravato per di più da una criminalizzazione feroce. Ma il nocciolo della questione per gli Incel è esattamente quello descritto da Brooks che però, da americano, non può che metterla giù dal lato economico e finanziario. Parla di posti di lavoro, paghe, prestiti, insomma business & money. Gli Incel invece concentrano la loro attenzione su una questione ben più profonda e importante: le relazioni affettive.
Si può fare, può funzionare.
In quell’ambito essi sottolineano gli effetti alienanti e psicologicamente devastanti dell’essere gettati fuori dall’area delle possibili relazioni affettive, ma anche l’immenso potere che, in quello stesso campo, è riservato a chi rientra nei canoni estetici considerati ottimali dalla società. Forse è proprio questo, oltre che magari il modo “respingente” che hanno di esprimere le loro idee, per lo meno in superficie, che vengono tenuti fuori e dimenticati da Brooks: pongono questioni umane e non economico-finanziarie, dunque sono irrilevanti. Forse è per lo stesso motivo che, mentre un giornalista che da sempre detta la linea del politically correct sul New York Times sdogana i danni della bruttezza, a Washington il presidente più improponibile e pilotato della storia americana inserisce gli Incel all’interno dell’elenco ufficiale del FBI contenente i “pericoli terroristici interni”. Il cuore della “dottrina Incel”, se così la si vuole chiamare, va bene per dividere la società in tribù in continua competizione, ma non va più bene se individua un’area di sofferenza psico-sociale. La meravigliosità dei cortocircuiti del progressismo d’oltreoceano è anche questa.
La stupidaggine mercantilistica di Brooks però, al di là degli effetti esilaranti della contraddizione che crea, può essere un suggerimento non da poco per le comunità Incel, che potrebbero smettere di porre la questione soltanto sul piano umano, affettivo o erotico e iniziare rapidamente ad aggiungere all’elenco delle sofferenze tutte le tipiche fattispecie farlocche utilizzate dalle altre minoranze. Gli esempi non mancano, basta prendere le rivendicazioni femministe o queer. Si immagini l’effetto di denunciare un ugly paygap, un divario salariale o occupazionale dei brutti. O un doppio standard nei tribunali causato dal lookism. O la carenza di servizi di assistenza per la violenza contro le persone brutte. O iniziare a usare il neologismo “brutticidio”. Il tutto magari organizzandosi in un’associazione unitaria che diffonda quel tipo di balle, affermi una vittimizzazione storica e attuale dei brutti e organizzi periodiche shitstorm concertate contro chi discrimina le persone non gradevoli d’aspetto. Non sarebbe vero niente, come non è vero quando a rivendicare sono le femministe o i queer, ma intanto si porterebbe avanti e sottotraccia l’agenda vera, quella rivoluzionaria, quella che punta il dito contro l’edonismo imperante, capace anche di annullare intere vite che non possono o non vogliono adeguarvisi. Si può fare, può funzionare, per di più in grande tranquillità perché sotto la protezione di un guru del progressismo e del politicamente corretto come David Brooks del New York Times.