Colpisce nel profondo la vicenda della Sig.ra Giovanna Pedretti. Per chi non la conosce: la donna era una ristoratrice, diventata improvvisamente celebre per aver risposto in modo severo a una recensione che esprimeva critiche per la presenza nel suo locale di una coppia gay e di un disabile. La recensione e la risposta erano finite su tutti i social e perfino in TV, con interviste a Giovanna e tutto il circo mediatico usuale. Molti però hanno notato che qualcosa non andava nello screenshot diffuso: tipo e dimensione dei caratteri, il loro allineamento e altro. Insomma in breve si è diffuso il dubbio che Giovanna volesse il suo momento di celebrità (e pubblicità per il suo locale) usando una recensione falsa, costruita apposta per avere l’assist per una risposta politicamente corretta. Un inganno in cui sono caduti tutti i penosi media mainstream nostrani, in barba ai tanto declamati fact-checker. Il sospetto in breve è diventata un’accusa, da cui Giovanna è stata seppellita sui social, con tutto l’astio tipico di chi si scatena da dietro un monitor. Probabilmente non reggendo alla pressione, e forse consapevole di essere stata scoperta nella sua piccola bugia, Giovanna è stata trovata morta stamattina, probabilmente suicida.
Occorre riflettere sulla smisurata rilevanza che i social network hanno acquisito nell’esistenza della maggioranza delle persone. Per molti la vera vita è là, dentro Facebook, Instagram, X o altro. La vita reale per costoro è diventata un di più di scarsa importanza, spesso quasi fastidioso, come la pubblicità che interrompe un film. In questo caso si tratta del film della propria vita, a cui si attribuisce senso solo in quanto proiettato su uno schermo pubblico e virtuale. Per costoro, al di fuori della proiezione c’è solo uno scenario noioso, dove non è possibile raccontare la propria esistenza, magari edulcorandola pesantemente, bensì c’è una vita che va vissuta concretamente, con tutte le difficoltà e le miserie connesse. La logica dominante dei social sovverte la normalità e porta molti, troppi, inclusa forse la povera Giovanna, a vivere immersi in un dominio che, diversamente dalla realtà vera, non si può controllare in nessun modo, neppure in parte. E che per questo spesso può rivoltarsi contro chi ospita, divorandolo senza pietà. Giovanna si è uccisa forse anche perché di quel dominio fatuo aveva fatto, come tanti altri, il suo mondo principale.
Il potere dei “follower”.
Ha finito per essere proverbiale (un “meme” si direbbe oggi) l’amico che racconta di aver pescato un pesce grande così, nella misura della larghezza compresa tra le sue mani sospese in aria. Una larghezza che si amplia mano a mano che ripete il suo racconto. Prima dei social, l’esagerazione restava nella cerchia degli amici, così come il disvelamento della verità: quella che lui spacciava per una mezza balena in realtà era un’acciuga. Qualche presa in giro e finita lì. Oggi lo stesso racconto lo si può fare potenzialmente a milioni di persone, tutti perfetti sconosciuti, che tali restano anche quando commentano, essendo nascosti dietro a un’account, a un monitor e a chilometri di distanza. Ma soprattutto oggi puoi anche dimostrare la tua impresa: con qualche trucco grafico l’acciuga tra le mani diventa facilmente una balena. La differenza, ma soprattutto l’anomalia, è che la sbruffonata di un tempo, seppellibile dalle cinque o sei risate di cinque o sei amici, oggi può diventare occasione di una celebrità che tutti vogliono e che, se il colpo fallisce, può diventare una gogna planetaria capace di chiamare a raccolta soggetti che sopperiscono alla propria deficienza di vita e senso facendo le pulci e la morale agli altri. Dice: “i social network sono pericolosi, bisogna saperci stare perché amplificano tutto”. Non è così: non sono un amplificatore, ma una catapulta che ti scaglia nel bel mezzo del peggio che la natura umana sa dare quando sa di poter agire restando nascosta. Senza contare che, se i social network sono così pericolosi, per accedervi servirebbero allora un corso preliminare e un esame apposito, come si fa con le auto, o no? In ogni caso l’argomento segnala un’anomalia da risolvere, non una “nuova normalità” come alcuni spacciatori di verità vorrebbero farla passare.
Tra costoro spiccano ora, nelle polemiche pubbliche successive al suicidio di Giovanna, Selvaggia Lucarelli e il suo compagno, i quali, nell’esprimere cordoglio per la morte di Giovanna, cercano di prendere le distanze dall’accaduto, dopo essere stati però in prima fila a mettere alla prova la ristoratrice. E lo fanno parlando di un corretto perseguimento della verità, che non deve fermarsi davanti a niente e a nessuno. Giovanna aveva mentito, dicono, è stata scoperta e per questo era sacrosanto sbugiardarla pubblicamente. Colpa sua che non ha capito “come funzionano i social”. A dirlo sono soggetti (non solo Lucarelli e compagno, ma anche tanti tanti altri), che invece hanno capito benissimo, anche se fanno finta di no, come funziona il meccanismo disumano in cui pressoché tutti sono immersi. Se hai 500 mila seguaci e segnali qualcuno, hai la certezza che almeno due o tremila dementi tra essi si scateneranno a sbranare la persona oggetto della tua segnalazione. La quale, se vive nei social, come probabilmente accadeva per la povera Giovanna, può significare un trauma di tale profondità da portare al suicidio. Tutto ciò non accade se hai 100 seguaci: nessuno considererà minimamente le “crociate” che lanci sui social, nemmeno se ti ci metti d’impegno.
La “ricerca della verità”.
Siamo ben lontani dalla “ricerca della verità”, dunque. Un po’ perché l’inezia del “peccato” di Giovanna non avrebbe dovuto indurre nessuno a utilizzare la propria potenza di fuoco mediatica per smentirla. Un po’ perché in realtà Giovanna con la sua fake news si è resa colpevole solo di aver osato per qualche momento di essere più famosa di taluni influencer (spesso produttori industriali di fake news) ed è qualcosa che alcuni di essi non sono in grado di perdonare. Con il suo errore, poi, ha dato l’occasione a taluni fra di essi per costruire uno scalpore di cui giovarsi, in termini di raccolta di ulteriori seguaci, e contemporaneamente di “punire” chi aveva osato provare a raggiungere l’olimpo della fama. Altro che “ricerca della verità”: si tratta di un mero esercizio di potere. Un potere mediatico sorto dall’anomalia intrinseca dei social network, che dà in mano a pochi, checché ne dica la Lucarelli, la possibilità di portare alla gogna chiunque tra i molti. Un’arma devastante, il cui errato utilizzo, in un mondo sensato e giusto, dovrebbe portare, nel caso di Giovanna e in tanti altri, all’incriminazione e alla condanna per istigazione al suicidio.
Ma dovrebbe portare anche alla diffusione di una convinzione storicamente sempre stata vera e solo molto raramente smentita: chi davvero cerca la verità, con impegno coerente e un’etica rigida, è persona ignota ai più. E se è nota, è ostracizzata, emarginata, demonizzata, criminalizzata, derisa e immiserita, spesso proprio da chi ha fatto dello spaccio di verità spicciole una fonte di reddito. Chi davvero persegue la verità non ha seguaci, non anela al “like”, non guadagna sulle proprie attività, non si aggrappa all’inezia di una piccola bugia per il proprio tornaconto, ma semmai attacca frontalmente le grandi menzogne. Un amante della verità dovrebbe prendersela con l’intero sistema dei social network e di tutte le storture che ne derivano, di certo non con una formica come Giovanna. A lei, vittima in piccola parte della sua vanità ma soprattutto di un sistema malatissimo, nonché alla sua famiglia, un pensiero di solidarietà e vicinanza.