La partecipazione delle cosiddette “donne transgender” (cioè uomini) negli sport femminili è assurta a tema di dibattito pubblico internazionale dopo che alcuni media, tra cui l’eccellente documentario What is a woman? di Daily Wire, hanno portato agli onori della cronaca la vicenda di “Lia” Thomas: mediocre nuotatore che, dopo aver deciso di identificarsi come donna e gareggiare con le donne (senza neanche adottare alcun accorgimento chirurgico o estetico per nascondere la propria corporeità maschile), è magicamente diventato un campione. Secondo gli attivisti arcobaleno, si tratta di un caso isolato che non dev’essere trattato come “fenomeno sistemico”. Nel mondo fatato della teoria gender infatti le “persone transgender” vivono dalla nascita la propria condizione, da considerarsi non anomala ma “tipicamente” umana e quasi metafisica, di incarnare in un corpo di un dato sesso il “genere” opposto o qualche altra variante come le “identità non-binarie”: pertanto escludere le “donne transgender” (cioè uomini) dalle gare di categoria femminile sarebbe un’ingiusta discriminazione di matrice “transfobica”. Non solo ingiusta ma anche ingiustificata perché, dicono, non è detto che l’essere nato in un corpo maschile porti necessariamente una “donna transgender” (cioè uomo) a essere più prestante e performante delle eventuali avversarie donne; può succedere come no, ma dipende dalla bravura personale, dalla costanza nell’allenamento, e poi ci sono differenze molto significative anche tra uomo e uomo e tra donna e donna all’interno della stessa categoria, no? Quindi, dicono, stando a questo criterio dalle categorie femminili dovrebbero essere escluse anche le donne che per dono di natura siano eccezionalmente forti, prestanti, dotate di corpi “mascolini”.
Chiaramente non può essere così, lo sport (quello professionistico competitivo, s’intende) è un campo per sua natura strutturato in modo tale da premiare l’eccellenza assoluta. L’importante è partecipare, ma vince il migliore: che si è allenato meglio con dedizione e volontà d’acciaio, certo, ma di solito questo non basta, occorre anche una prestanza fisica eccezionale e di solito i grandi campioni sono tali in quanto riescono a raggiungere un’eccellenza in entrambe le caratteristiche. Non ci sono “sussidi” per scalare posti in classifica, non ci sono “quote” per chi è meno abile o svantaggiato per natura, non c’è “pietà”, pur non mancando mai il massimo rispetto per chiunque decida di provare a mettersi in gioco: la squadra che ha perso in modo schiacciante si applaude, se ha giocato dando il massimo e con fair play. Ma comunque ha perso. Proprio questa natura intrinseca dell’agone sportivo è il motivo per cui, nel secolo scorso, si riconobbe la necessità di creare delle categorie a parte per le professioniste femminili e per lo stesso motivo sono nate le “Paralimpiadi” per sportivi con vari svantaggi fisici. Il Barone Pierre de Coubertin scriveva in Le donne ai giochi olimpici (1912): «Non dimentichiamoci che i Giochi Olimpici non sono parate di gente che fa esercizio fisico, ma puntano al superamento, o almeno al mantenimento, dei record. ‘Citius, altius, fortius’: più veloce, più alto, più forte. Questo è il motto del Comitato Internazionale e la ragione dell’esistenza di qualsiasi forma di olimpismo. Qualsiasi possano essere le ambizioni atletiche di una donna, le donne non possono riuscire a superare la performance maschile in pressoché tutte le discipline. Portare il principio teoretico della parità dei sessi nel campo dello sport significherebbe indulgere in un vano puntiglio privo di alcun significato e impatto». Il Barone argomentava in tal modo come premessa per un ragionamento: dato che le donne non possono superare per struttura fisica la performance maschile, per farle gareggiare alle Olimpiadi occorrerebbe una categoria parallela e esclusivamente femminile. Alla quale lui era contrario, considerando l’idea poco pratica, dispendiosa e di scarso interesse e profitto. La storia lo ha superato almeno nel fatto che oggi esistono categorie femminili professionistiche in pressoché qualsiasi sport (interesse e profitto sono un altro discorso che qui non affronteremo), ma assolutamente non nella premessa: per quanto molti taccino ancora oggi di “misoginia” chi la sostenga, essa è puramente un dato di fatto corroborato dall’osservazione empirica e dall’indagine scientifica.

La bufala delle “soglie” di testosterone.
È un problema che, con le istanze legate alla “inclusività” e “parità di genere” si è posto anche in ambito militare, dove non è possibile creare uno scenario di guerra separato per le donne (ho affrontato il tema in dettaglio qui): c’è un decisivo consenso scientifico sul fatto che mediamente il fisico maschile è più grosso, ha più massa muscolare, è più forte, più veloce, e più resistente rispetto al fisico femminile (cfr. in merito anche questa dichiarazione ufficiale di consenso scientifico dell’American College of Sports Medicine, settembre 2023). La distribuzione di queste caratteristiche nella popolazione di uno stesso sesso ha la classica forma “a campana”, per cui si trovano molti individui nei valori mediani e pochi individui agli estremi superiori e inferiori dello spettro, ma l’evidenza dimostra che, dal punto di vista meramente fisico, anche gli estremi superiori nel pool femminile stanno spesso al di sotto dei valori medi del pool maschile. È questa la ragione per cui la nazionale di calcio femminile australiana ha potuto perdere 7-0 giocando qualche anno fa contro una squadra di calciatori quindicenni, pur essendo classificata al quinto posto nella classifica delle migliori nazionali femminili del mondo; è questa la ragione per cui l’attuale detentrice del record femminili per i centro metri piani, Florence Griffith-Joyner, non riuscirebbe neanche a qualificarsi per la corrispondente gara olimpionica maschile; è questa la ragione per cui “Lia” Thomas identificandosi come donna riuscì nel 2022 a passare dal 432° posto tra i nuotatori al 1° posto tra le nuotatrici. Insomma è questa, e non la “misoginia”, la ragione per cui fu istituita, con buona pace del Barone de Coubertin, una categoria separata femminile. Ed è questa, e non la “transfobia”, la ragione per cui le “donne transgender” (cioè gli uomini) devono starne fuori. Basterebbe a dimostrarlo il fatto che nessuna polemica è sorta per il problema a senso inverso (“uomini transgender”, cioè donne, negli sport maschili) dove di fatto la cosa non crea nessuno svantaggio sistematico per la categoria “ospitante”, anzi semmai questi soggetti “ospitati” gareggiano svantaggiati, per cui onore a loro se proprio vogliono così.
A questo punto, la tipica obiezione degli attivisti arcobaleno è che il vantaggio accordato dalla fisicità maschile viene azzerato dall’uso degli ormoni cross-sex, i quali abbassando significativamente il livello di testosterone nell’organismo, provocano anche significativi mutamenti al ribasso a livello scheletrico e muscolare: sarebbe perciò sufficiente misurare i livelli di testosterone per assicurarsi l’idoneità di una “donna transgender” (cioè uomo) a gareggiare nella categoria femminile. E di fatto è così che molte istituzioni sportive, tra cui ad es. il Comitato Olimpico Internazionale e il World Athletics (la federazione internazionale dell’atletica leggera), affrontano attualmente il problema, fissando una “soglia” di testosterone sotto la quale l’atleta transgender è ammesso, da regolamento, a gareggiare con le donne, posto che tale livello sia mantenuto da almeno un anno prima dell’effettiva partecipazione alle gare. Peccato che questo non garantisca affatto che il vantaggio maschile sia azzerato: ormai molteplici studi dimostrano che esso si mantiene in larga proporzione nonostante l’uso degli ormoni cross-sex, e per un periodo di tempo molto lungo. Il prestigioso British Journal of Sports Medicine, in una review dell’evidenza disponibile, ha verificato che il regime farmacologico opera una riduzione soltanto minima dei parametri fisici maschili e conclude: «I dati disponibili dimostrano che il vantaggio in termini di corporeità, massa muscolare e forza risultanti dalla pubertà maschile non sono rimossi dal regime di soppressione del testosterone in misura tale da consentire la partecipazione delle ‘donne transgender’ negli sport femminili. L’evidenza indica piuttosto che i vantaggi performativi rimangono sostanziali».

Stanno intervenendo leggi e regolamenti.
Molti attivisti per i “diritti transgender” hanno di fatto preso atto di questa realtà e infatti l’obiezione si è, ai giorni nostri, modificata fino a diventare una possibile giustificazione per l’uso degli ormoni bloccanti della pubertà. L’argomentazione è questa: se attraversare la pubertà prima di intraprendere una transizione farmacologica rende il fisico irrimediabilmente “maschile”, con relativi squilibri che risulteranno nella necessaria esclusione dagli sport femminili, allora bisogna partire prima, bloccando la pubertà. Il “mantra” usato in questo caso è che prima della pubertà (cioè prima dei 12 anni circa) non c’è sostanziale differenza nel fisico maschile e femminile. Anche questo però sembra essere decisamente smentito dall’evidenza empirica: se è vero che il gap nella performance fisica tra un bambino e una bambina è minore rispetto a quello tra un uomo e una donna che abbiano superato la pubertà, tali differenze sono già presenti e non sono trascurabili (qui e qui due analisi in dettaglio). Ma anche se così non fosse, risulterebbe moralmente discutibile giustificare l’idea che un bambino possa decidere prima della pubertà (mettiamo, a 10 anni) che “da grande” vorrà fare “l’atleta transgender”, e pertanto dare un consenso informato ad assumere a tal scopo i bloccanti, con la medicalizzazione a vita, l’alto tasso di effetti collaterali e tutto il costo umano che ciò comporterà. Arrivati a questo punto la posizione degli attivisti per i “diritti transgender” diventa tipicamente quella di un bilanciamento costi-benefici: gli atleti transgender sono casi talmente rari e isolati, dicono, da non poter realmente costituire un problema “sistemico” negli sport femminili al punto da doverne comandare l’esclusione per regolamento; e di contro, trattare tali rarissimi casi nel senso dell’esclusione può comportare per tali soggetti un danno notevole in termini di salute mentale.
Ma sarà vero che la minaccia posta dalle “donne transgender” (cioè uomini) negli sport femminili sia così minima, trascurabile e ristretta a pochissimi casi isolati? Forse non è proprio così se, sull’onda di un numero crescente di scandali e proteste da parte delle atlete professioniste, sempre più legislatori e organismi sportivi stanno prendendo la decisione di emanare regolamenti nel senso dell’esclusione: ultimi ma estremamente rilevanti la Spagna della “ley trans” (che difficilmente può essere tacciata di “transfobia istituzionale”!) e l’equivalente della Camera statunitense, che ha di recente votato a favore di una legge che, se confermata al Senato (e vista la posizione di Trump in merito, è facile che lo sarà), escluderà le “donne transgender” negli sport femminili giovanili. L’attivista arcobaleno risponderà che se questo sta accadendo, è solo a causa dell’“onda nera”, del “ritorno del fascismo”, di una “reazione” spaventata priva di ragioni empiriche o scientifiche e dalla matrice puramente “transfobica” e “discriminatoria”; mentre di fatto i casi di “donne transgender” (cioè uomini) che vincono negli sport femminili sono appunto rari, rarissimi, praticamente inesistenti, praticamente solo “Lia” Thomas, che peraltro “perde pure ogni tanto”!

Anche l’ONU ora ha dubbi.
Ebbene a smentirli – e veniamo con questo alla conclusione – non c’è qualche “opinionista omofobo” o qualche “TERF (‘femminista radicale trans-esclusionista’)” che scrive nei recessi di qualche blog “etero-cis-normativo” senza portare neanche lo straccio di un dato, ma le Nazioni Unite. In un rapporto discusso lo scorso ottobre intitolato alla Violenza contro le donne e le ragazze nello sport, al capo III.C, l’incaricata speciale ONU Reem Alsalem si esprime così: «L’inclusione di maschi che si identificano come femmine negli sport femminili ha portato a un crescente numero di casi in cui le atlete femmine si vedono negate le opportunità che spetterebbero loro. Secondo i dati disponibili al 30 marzo 2024, oltre 600 atlete femmine in oltre 400 competizioni hanno perso 890 medaglie o altri riconoscimenti in 29 discipline sportive differenti». (La fonte di questi numeri pare essere il sito SheWon, che raccoglie la casistica: al momento in cui scrivo registra 766 atlete, 1088 riconoscimenti e 40 diverse discipline, la stragrande maggioranza negli ultimi sei anni.) Casi rarissimi e isolati? Nessun “fenomeno sistemico”? Continua il report: «La soppressione farmacologica del testosterone su atleti geneticamente maschi – a prescindere da come essi vogliano identificarsi – non rimuove il loro vantaggio fisico… I livelli di testosterone considerati attualmente accettabili sono, per essere cauti, non basati sull’evidenza scientifica e risultano favorire i maschi biologici in modo arbitrario e asimmetrico… Per evitare questa ingiustizia nei confronti delle donne, gli uomini non devono competere negli sport femminili». Caro attivista arcobaleno, che si fa? Vogliamo continuare a dire che pure l’ONU, e pure i dati empirici e i numeri, sono vittime di “transfobia sistemica interiorizzata”? O vogliamo fermarci un attimo a riflettere?