di Alessio Deluca. Butti un occhio sulla Germania e capisci che tutto il mondo è paese e che mal comune mezzo gaudio. I proverbi adatti alla situazione si sprecano, dopo aver letto attentamente il dossier “Gleichstellungspolitik für Jungen und Männer” (Politica della parità per ragazzi e uomini) diramato a inizio ottobre dal ministero federale tedesco per la famiglia, gli anziani, le donne e la gioventù. Un documento che dimostra come la chiave di lettura femminista abbia permeato in profondità l’assetto istituzionale di ogni paese occidentale sviluppato, inclusa la rigida e rigorosa Germania. La sacca purulenta che secerne il veleno sociale, manco a dirlo, viene dalla SPD, il partito della sinistra tedesca, quello che fin dagli anni ’70, nei suoi collettivi e gruppi di lavoro femministi interni, declinava il concetto di “parità” con slogan tipo: “gli uomini sono tutti dei maiali”. Si racconta di atmosfere degne delle valchirie wagneriane, primitive, aggressive e impregnate di odio antimaschile. “In quel periodo”, racconta il giornalista tedesco Lucas Schoppe, “le persone crescevano in condizioni di risorse limitate, e quelle sono condizioni in cui le persone dipendono dalla collaborazione reciproca”. Anche per questo molte donne presero le distanze dal femminismo militante e odiatore della SPD, spesso rifugiandosi nelle più pacate e davvero paritarie iniziative interne alle parrocchie protestanti.
Quell’odio antico e primigenio, cifra costante di tutto il femminismo, ha percorso i decenni, come un fiume carsico, per riaffiorare e dilagare oggi, nel momento in cui l’inerzia collettiva non solo gli apre le porte, ma gli stende tappeti rossi. Ed è così che il documento del ministero dice che “La Germania vuole l’uguaglianza” tra uomini e donne. Cioè vuole l’impossibile: un conto è la parità di diritti e doveri, altro conto è un’irrealizzabile uguaglianza tra soggetti per natura diversi. Retorica da femminismo tossico, si dirà: sì, e il modo con cui, secondo il ministero, si può realizzare questa uguaglianza lo dimostra. “È necessario e ragionevole”, dice il dossier, “che ragazzi e uomini, per sostenere l’emancipazione delle donne, facciano un passo indietro, facciano sacrifici e imparino a stare zitti”. La traduzione non lascia margini, c’è scritto proprio così: stare zitti. Cosa accadrebbe se un ministero scrivesse su un documento ufficiale dedicato alla parità tra i sessi che le donne devono stare zitte, riuscite a immaginarlo? Eppure a generi invertiti si può, è legittimo, carta ministeriale canta. Ed è soltanto l’inizio, il peggio ha da venire.
Leggi che legittimano aberrazioni.
“Gli uomini”, prosegue il dossier ministeriale, “devono assumersi la responsabilità del loro dividendo patriarcale”. Un concetto aberrante derivato dagli scritti di uno studioso transessuale, Robert Connell, che basa il suo “pensiero” sull’idea che l’essere maschio sia di per se stesso un vantaggio in una società intimamente patriarcale. Parte di questo dividendo, secondo il documento ministeriale, si concretizza in un tipo di “socializzazione maschile” intesa come l’apprendimento della violenza e della dominazione, senza tenere in alcun conto sentimenti ed emozioni. Lo stesso termine “razionalità” viene utilizzato in modo deteriore, come un meccanismo mentale tipicamente maschile atto a squalificare la parte sentimentale del vivere umano. Un bel pastone d’odio antimaschile, insomma, il documento del ministero tedesco, che raggiunge l’apice con il suo uso sistematico (e in quanto tale sdoganante) dell’espressione “maschilità tossica”. Per il ministero non c’è dubbio: l’uomo, il maschio, è portatore di un veleno in una società che altrimenti, senza gli uomini (cioè dominata dalle donne), sarebbe sana. “Abbiamo un ministero federale”, commenta il già citato Schoppe, sbigottito, “che parla di metà della popolazione con lo stesso risentimento con cui l’AFD parla degli stranieri”. O, diremmo noi, visto che il giornalista tedesco probabilmente non se la sente di dirlo, come i nazisti parlavano degli ebrei.
Quando passa a trattare il tema della paternità, il documento ministeriale non si discosta dall’approccio iniziale e ad esso aggiunge uno chiaro scollamento con la realtà fattuale della società tedesca (e occidentale in genere). “Gli uomini”, si legge nel dossier, “rimangono concentrati sull’occupazione e trascorrono meno tempo a prendersi cura dei propri figli e a fare i lavori domestici rispetto alle madri”. Una sciocchezza assoluta, valida forse (e sottolineiamo forse) nella Germania dei tempi di Otto Von Bismarck, non certo quella attuale. Nelle parole del dossier emerge chiaramente che la responsabilità paterna non è desiderata, anzi è addirittura percepita come fastidiosa. Dietro siffatte idiozie, pronunciate spesso anche in Italia, si nasconde un problema che la Germania condivide con l’Italia (e non solo) una pressoché sistematica disapplicazione del diritto alla bigenitorialità per i minori. Là come qua vige una rigorosa maternal preference, nonostante le leggi e i richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Cui si aggiunge una tendenza irrefrenabile a distruggere il concetto e l’istituzione della famiglia (oltre che la figura del “padre”) attraverso iniziative di legge che consentono e legittimano diverse varietà di aberrazioni, come la proposta del ministro della giustizia Lambrecht orientata a consentire il riconoscimento di “due madri” nel caso una ex moglie con prole allacci una relazione lesbica.
La politica del risentimento e della follia.
Il bello del documento però arriva alla fine, quando si parla di violenza. Per la prima volta, almeno nella nostra esperienza, si legge su un documento femministissimo un’osservazione cruciale e sempre sottaciuta: “quasi due terzi di tutte le vittime di violenza sono maschi”. Nell’ansia di imporre la vittimizzazione femminile e di colpevolizzare gli uomini, la narrazione femminista si concentra solitamente e furbescamente solo sui dati degli autori di violenza, mai su quelli delle vittime. Il documento tedesco lo fa e prende atto che i più bersagliati dalla violenza, sia femminile che maschile, sono proprio gli uomini. Per logica ne dovrebbe derivare la necessità di maggiori interventi a loro tutela, ma la logica non è parte di questo tipo di scartafacci ideologici ministeriali. Citiamo alla lettera il dossier (corsivi nostri): “la violenza subita dagli uomini andrebbe affrontata con particolare attenzione anche per evitare che questa venga percepita come una relativizzazione della violenza subita dalle donne“. Proviamo di nuovo a cambiare i termini per vedere l’effetto che fa e diciamo che dovremmo limitarci a “valutare con attenzione” i casi in cui a essere vittime di violenza sono persone immigrate per evitare di relativizzare i casi in cui le vittime sono italiani. Provate a esprimere un concetto simile in pubblico e verrete seppelliti in un picosecondo da accuse di razzismo e fascismo. Se però si tratta di uomini va tutto bene, anzi si istituzionalizza la cosa in un documento ministeriale.
Molti osservatori in Germania hanno definito questa, di matrice socialista ma ormai condivisa trasversalmente tra i partiti, una politica del risentimento, una sorta di putrefazione del vecchio conflitto proletari/borghesi che ha prodotto e istituzionalizzato al suo posto il conflitto uomini/donne, a partire dalla matrice falsificante del “patriarcato” e della “maschilità tossica”. Chiamarla così è molto evocativo ma a nostro avviso fin troppo nobilitante. Per quanto avanti si è spinta, noi la definiremmo piuttosto una politica della follia, che sta dilagando in Germania come in Italia e in tutto l’Occidente. Nel momento in cui proprio a Berlino si decide di scrivere leggi convertendo al femminile tutti i termini usualmente al maschile, si è davanti a una forma di follia. Nel momento in cui in Italia si mette sotto processo tutto il vivere comune, a partire dalla lingua o dalle più banali regole della grammatica (vedasi questo sublimato di non-sense da un libro di tale Annalisa Murgia), si è davanti a una forma di follia. Venuti a conoscenza di come questa insania si esprima nelle aree a nord delle Alpi, tuttavia, ancora dalle nostre parti non si riesce a mettersi il cuore in pace con il “mal comune, mezzo gaudio”, e non si smette di cercare una via d’uscita dal labirinto mortale che è questo manicomio femminista in cui siamo stati rinchiusi a forza noi e il futuro dei nostri figli.