«La condizione del carcerato storicamente si ricollega alla schiavitù del periodo classico», scrive Antonio Gramsci nella lettera datata 14 dicembre 1931 (Lettere dal carcere, 1926/37). Secondo questa riflessione di Gramsci la condizione del carcerato e quella dello schiavo si sovrappongono. Per l’ideologia femminista sono invece la condizione della donna e quella dello schiavo che si sovrappongono (1, 2). Entrambe le affermazioni non possono essere vere. Attualmente circa il 95% della popolazione carceraria è maschile, una percentuale che lungo la Storia ha raramente subito grandi variazioni. Storicamente la stragrande maggioranza della popolazione imprigionata è stata maschile. Ora, se i carcerati-schiavi sono prevalentemente uomini, non possono essere nel contempo dei “privilegiati”, come sostiene la teoria femminista, e, viceversa, se la maggior parte delle donne non era soggetta a questa condizione di carcerata-schiava, in che modo le donne potevano essere «più schiave» di questi uomini che subivano questa condizione? Tutta l’intellighenzia femminista, dalla prima ondata in poi, ha descritto la condizione della donna con la parola «schiava», una termine categorico e assoluto che non ammette replica. La semplice riflessione di Gramsci contraddice questa visione. Il concetto di schiavitù, è storicamente giustificato se riferito alla condizione della donna?
Molto sommariamente, un’immagine di schiavitù che evoca la nostra immaginazione potrebbe essere quella dello schiavo che tenta la fuga inseguito dai cani. La condizione dello schiavo comprendeva quindi il rischio di essere inseguito da cani feroci nel tentativo di fuga. Le donne, in genere, hanno mai corso storicamente questo rischio? Sono mai state soggette a coercizioni tali da tentare la fuga e rischiare di essere rincorse da cani feroci? Malgrado la narrazione storica femminista dipinga le donne in prigioni domestiche e in catene, le donne hanno sempre goduto della facoltà di muoversi e di andarsene quando volevano. In un mondo scarsamente popolato, di campagne aperte e natura lussureggiante e selvaggia, le donne erano libere di andarsene e, se lo facevano, non erano inseguite dai cani. La condizione delle donne nubili e vedove è stata pressoché ovunque una condizione di assoluta libertà. Scrive Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso a proposito di queste donne durante il Medioevo: «Nubile o vedova ha tutti i diritti dell’uomo; la proprietà le conferisce la sovranità: possedendo un feudo lo governa, cioè amministra la giustizia, firma trattati, emana leggi. Può perfino avere funzioni militari, comandare truppe, prendere parte ai combattimenti» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, a p. 458).
La schiavitù maschile e femminile.
Il matrimonio, denunciato dalla storiografia femminista come un destino ineluttabile che portava inevitabilmente le donne alla condizione di schiave, in realtà nella maggior parte dei casi si trattava di una scelta: «Fra il 1550 e il 1800 la percentuale di donne che morivano nubili dopo i cinquanta anni oscillava fra il 5 e il 25 per cento. […] In Francia si sposavano più donne che in Gran Bretagna nel XVII secolo ma, in seguito, il numero delle zitelle iniziò ad aumentare e nel 1789 circa il 14 per cento delle donne che morirono al di sopra dei cinquanta anni non si era mai sposato» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, a p. 560). Anche se sposate, la condizione delle donne all’interno del matrimonio non era né peggiore né migliore della condizione degli uomini. Giudicate voi dalle parole di Caterina, personaggio di William Shakespeare ne La bisbetica domata (atto quinto, scena seconda), chi è più “schiavo” tra moglie e marito: «Tuo marito è il tuo signore, la tua vita, il tuo custode, il tuo capo, il tuo sovrano: è uno che si prende cura di te e che per mantenerti sottopone il suo corpo a penoso lavoro, sia in mare che in terra, a vegliar la notte fra le tempeste e il giorno in mezzo al gelo, mentre tu riposi in casa al caldo, tranquilla e sicura, e non esige da te altro tributo se non amore, dolci sguardi, schietta obbedienza: troppo piccolo compenso per un debito così grande».
Per quanto assurdo possa sembrare, la condizione dello schiavo storicamente combacia molto meglio con la condizione degli uomini che con la condizione delle donne. E non parlo unicamente della condizione dei carcerati-schiavi che, come è stato previamente accennato, riguardava principalmente gli uomini. Storicamente gli uomini sono stati soggetti alla coscrizione obbligatoria: renitenti e disertori erano inseguiti, anche con dei cani feroci, come gli schiavi. Parimenti gli uomini sono stati soggetti a corvé e ai lavori forzati, e anche in questo caso, se tentavano la fuga, potevano essere inseguiti da cani feroci, come gli schiavi. La condizione degli uomini quindi (schiavizzati da certe coercizioni storiche) era più vicina alla schiavitù di quanto non lo sia mai stato per le donne. Quest’asimmetria storica può essere riassunta nella incisiva battuta del film western Morto per un dollaro (Dead for a dollar, 2022), ambientato nell’Ottocento. Un cacciatore di taglie viene ingaggiato per trovare Rachel Kidd, la moglie di un imprenditore che è fuggita volontariamente dal marito violento per stare con Elijah, un disertore afroamericano, di cui è innamorata. Il cacciatore di taglie trova entrambi e, nell’attesa dell’imprenditore, mette a Elijah in prigione e a Rachel alloggiata in albergo. Lei si lamenta: «Non sembra giusto, trattare Elijah come un criminale e io alloggiata in un bell’albergo». Il cacciatore di taglie risponde: «Elijah ha lasciato l’esercito, il che fa di lui un disertore. Lei ha lasciato il suo matrimonio. Nessuno va in galera per questo». Quale condizione, secondo voi, rassomiglia di più alla schiavitù?
La negazione della sofferenza maschile.
La dottrina femminista è una dottrina monolitica e onnicomprensiva che fissa l’irrevocabile principio della condizione dell’oppressa per la donna e dell’oppressore per l’uomo. Oggigiorno una delle grandi contestazioni di questa rigida dottrina, anzi, a mio parere la confutazione più importante, è la sofferenza maschile. Basta la sofferenza di un solo uomo, di uno qualunque, per smentire tutta l’intera e granitica narrazione della visione femminista attuale del mondo, che ci divide a seconda del sesso tra oppresse e oppressori. Per questo motivo il femminismo si adopera per occultare e/o minimizzare la sofferenza maschile, le misure discriminatorie a danno degli uomini si reinterpretano come un’erosione dei loro privilegi, e ogni sofferenza, semmai concessa l’esistenza, è ritenuta meritata in quanto giustificata dal loro ruolo di oppressori. Gli uomini meritano il male che ricevono, un’idea che rappacifica la coscienza delle femministe con le loro azioni discriminatorie e la loro indifferenza. Questa logica “irrazionale” genera cortocircuiti assurdi, come ad esempio le invettive di donne miliardarie, con potere istituzionale, che dormono in ville con piscina, che denunciano la loro condizione in quanto donne “soggiogate” dagli uomini, alcuni di loro magari veterani di guerra che dormono per la strada. Patriarcato. La logica completamente spazzata via.
Un articolo generico, tratto dai media, preso a caso: «Kawah Ijen: il lavoro più duro del mondo, attrazione turistica in Indonesia». «Come dei muli umani, i minatori del vulcano Kawah Ijen di Giava trasportano sulle spalle 70 chili di zolfo attraverso un pericoloso e ripido sentiero di pietra per venderlo a un’azienda a quattro chilometri di distanza che li paga solo cinque euro a viaggio. Il loro duro lavoro e il “fuoco azzurro” dello zolfo attirano ogni notte numerosi turisti». Turisti uomini e donne. Come è possibile che le donne siano le «schiave più schiave» (idea condivisa anche da questo stesso mezzo stampa che pubblica l’articolo) ma «il lavoro più duro del mondo» sia svolto da uomini? Come è possibile che le donne turiste siano «più schiave» degli uomini che svolgono questa fatica? Cortocircuito logico che nessuno si pone e non interessa a nessuno. Suicidi, morti sul lavoro, uomini abusati, senzatetto, padri disperati ai quali sono sottratti i figli, uomini innocenti imprigionati per false denunce, soldati morti sul fronte… Le femministe se ne infischiano! Non soltanto questa sofferenza non è prevista dalla loro ideologia, le femministe lavorano attivamente per occultarla, per censurarla, in modo da parare qualsiasi fatto che possa mettere in crisi la propria fede ideologica. Le femministe non soltanto non vogliono vedere la sofferenza maschile, fanno di tutto per negarla.
La carenza di empatia.
È impossibile che le femministe attuali non siano consapevoli dell’esistenza della sofferenza maschile. Basterebbe passeggiare per qualsiasi grossa città e prestare attenzione al sesso prevalente di quelli che dormono per la strada. Non è unicamente una controversia ideologica, si tratta di una carenza di empatia terrificante che non può che generare un rimprovero morale: le femministe non soltanto sbagliano, agiscono attivamente per negare la realtà, sono persone “cattive”. È naturale dunque che in molti giudichino l’attuale femminismo come un movimento radicale, “cattivo”, che odia gli uomini. Ora, si tratta di affrontare la questione sul femminismo della prima ondata, il femminismo “buono”, alla stessa maniera. Le femministe della prima ondata, erano anche loro immuni di empatia verso la sofferenza maschile? Erano a conoscenza di questa sofferenza e la occultavano deliberatamente a sostegno della propria tesi, come fanno le femministe attualmente? Sul serio nessuna femminista leggeva Gramsci né conosceva la condizione degli uomini carcerati all’epoca? Nel prossimo intervento prenderò in esame qualche esempio sulla condizione degli uomini contemporanei alle femministe “buone” della prima ondata, condizione che misteriosamente veniva ignorata nei loro discorsi.