«La donna è la superschiava, anzi la schiava per eccellenza» ha denunciato Angela Bianchini nel libro Voce Donna (1979), sulla falsariga di Yoko Ono, che dichiarava nel 1969 «le donne sono i negri del mondo», intesi i negri come schiavi e individui discriminati. Nel contempo, la massima esponente del femminismo italico, Carla Lonzi, ha scritto «la liberazione della donna non consiste nel raggiungere l’indipendenza economica, ma nel demolire quella istituzione che I’ha resa più schiava e schiava più a lungo degli schiavi». Serva, oppressa, assoggettata, dominata, sfruttata, subordinata, soggetta, sottomessa… tutti termini adoperati dal femminismo, dalla seconda ondata in poi (il femminismo “cattivo”), per descrivere la condizione della donna. Tutti sinonimi che descrivono una condizione intollerabile. Tra tutti regna incontrastato il termine «schiava». Le femministe, dagli anni ’60 in poi, non hanno fatto altro che emulare la “madre del femminismo”, Simone de Beauvoir, che sulla condizione della donna scrive negli stessi termini, nella sua opera “Il secondo sesso”, «Questo è un mondo che è sempre appartenuto al maschio. […] …la donna è sempre stata, se non la schiava, la suddita dell’uomo. […] La società patriarcale ha dato a tutte le funzioni femminili la forma di una schiavitù. […]… quando invece sarà abolita la schiavitù di una metà dell’umanità…». Se l’umanità è un insieme indubbiamente binario, e la donna è la «schiava», è evidente che l’uomo è l’oppressore, il tiranno, il carnefice, lo sfruttatore, il despota… insomma il «padrone».
Nella lettura marxista delle Storia, gli storici hanno denunciato l’oppressione dei molti da parte dei pochi. Nella lettura femminista della Storia, l’oppressione dei molti da parte dei pochi è diventata l’oppressione delle donne da parte degli uomini: le donne sempre oppresse, gli uomini sempre oppressori. La dottrina femminista ha stabilito un mondo nettamente diviso tra schiave e padroni, dove il termine corretto per descrivere la condizione della donna è «schiavitù». Iperbole? Retorica grandiloquente? Licenza letteraria senza importanza? Niente affatto. Scrive Germaine Greer nel best-seller femminista “L’eunuco femmina” (1970): «Le donne rappresentano la classe più oppressa di lavoratori non rimunerati con contratto a vita, per descrivere le quali la parola schiavo non è troppo melodrammatica. Esse costituiscono l’unico vero proletariato…». Per questo motivo il femminismo si è sempre autodichiarato un «movimento di liberazione». Le donne devono essere liberate, le catene devono essere spezzate. Soltanto chi non è libero, può essere liberato. Il femminismo è un’ideologia che rivendica il cambiamento e la trasformazione del mondo attraverso l’azione e la lotta. Il padrone, l’uomo, quindi, deve essere combattuto. Una visione perentoria e guerrafondaia. Come è stato riferito nell’intervento precedente, alcuni sosterrebbero che si tratti di una visione sbagliata, uscita fuori di senno, frutto del femminismo radicale della seconda ondata in poi (il femminismo cattivo) in contrasto con quella giusta del femminismo della prima ondata (il femminismo buono). Ma qual è la visione delle femministe della prima ondata? Qual è la terminologia da loro adoperata? Esiste tra loro e le femministe successive sostanziali divergenze su questa visione del mondo?
L’uomo sempre carnefice.
«La storia del genere umano è una storia di ricorrenti offese e usurpazioni attuate dall’uomo nei confronti della donna, al diretto scopo di stabilire su di lei una tirannia assoluta. […] …lui l’ha oppressa sotto ogni punto di vista», così, senza mezzi termini, descrive la Dichiarazione di Seneca Falls (Dichiarazione dei Sentimenti, 1848), da molti ritenuta l’atto fondativo del femminismo, la condizione delle donne rispetto agli uomini: «tirannia». Il fatto che questa Dichiarazione fosse firmata anche da 32 uomini, semplice gesto che smentiva la monolitica esposizione del testo sull’assoluta tirannia degli uomini e il loro desiderio di sopraffare le donne, non riuscì a destare alcun sospetto sulla fondatezza di questa visione. Nella Dichiarazione il termine “schiavitù” non compare, volutamente evitato, in un periodo nel quale negli Stati Uniti quest’istituzione era ancora diffusamente accettata. Era meglio evitare quindi un termine polemico, che rischiava di inimicare tutti i sostegni che provenivano dagli Stati del Sud. Ma le stesse femministe promotrici della Dichiarazione non avranno alcun problema ad adoperarlo subito dopo la guerra di secessione americana, a seguito dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Nel 1865, queste donne vissero come un affronto il fatto che ai “negri”, uomini rozzi e ignoranti, potesse venir concesso il voto prima di loro, donne bianche istruite della classe medio-alta. «La schiavitù non è ancora stata abolita negli Stati Uniti», recitava un articolo pubblicato nel 1870 intitolato «Le donne-schiave di America» (The Slave-Women of America). L’articolo, che denunciava come tutte le donne fossero rimaste prive di diritti civili e quindi prive di potere, appena parlava di quelle donne precedentemente schiave che erano state emancipate solo di recente. «È meglio essere schiava di un uomo bianco colto che di un nero ignorante e degradato», proclama Elizabeth Cady Stanton, «la prolungata schiavitù della donna è la pagina più nera della storia dell’umanità».
Di un parere simile furono le suffragette dall’altra sponda dell’oceano. In Inghilterra, la suffragetta Christabel Pankhurst proclamava: «il suffragio femminile… è il caso di un sesso tenuto in schiavitù dall’altro sesso. […] …coloro che vogliono avere le donne come schiave, ovviamente non vogliono che le donne possano votare». La madre, Emmeline Pankhurst, sosteneva che «se è giusto che gli uomini combattano per la loro libertà, allora è giusto che le donne combattano per la loro libertà e per la libertà dei loro figli. Su questa dichiarazione di fede poggiano le ragioni delle militanti inglesi». Nel 1913, durante un discorso a un meeting della WSPU (Women’s Social and Political Union), pubblicato successivamente sul suo giornale, The Suffragette, Pankhurst coniò uno dei motti divenuto più celebre del movimento femminista: «Preferirei essere una ribelle che una schiava. Preferirei morire piuttosto che sottomettermi; questo è lo spirito che anima questo movimento». Nel 2015, durante la promozione del film Suffragette, le attrici del film Carey Mulligan, Romola Garai, Anne-Marie Duff e Meryl Streep indossavano magliette promozionali con lo slogan: «Preferirei essere una ribelle che una schiava». Autopercezione femminile nel XXI secolo.
Da sempre “schiave”.
In Europa non si pose mai il problema di descrivere la condizione delle donne in termini di schiavitù. Scrive, ad esempio, John Stuart Mill: «Nei primi tempi storici la grande maggioranza del sesso maschile era schiava come la totalità del sesso femminile. […] Gli uomini non s’appagano dell’obbedienza delle donne. Essi si arrogano un diritto anche sui loro sentimenti. Tutti, i più brutali eccettuati, vogliono avere nella donna che è loro strettamente unita, non una schiava soltanto, ma una favorita. […] …nessuno schiavo è schiavo nella stessa misura, e nel senso così pieno della parola, come lo è una moglie». Concepcion Arenal, massima esponente del femminismo storico in lingua spagnola, scrive: «Nei popoli selvaggi, la donna, strumento passeggero di piaceri brutali, è orribilmente infelice. Il suo feroce tiranno la sacrifica e la travolge con il lavoro e il dolore. Senza altra legge che la forza e altri bisogni che gli appetiti grossolani, opprime la povera schiava che non trova pietà, perché il suo carnefice non sa cosa sia l’amore, la compassione o la giustizia».
Allo stesso modo, il femminismo proletario dell’Ottocento attingeva a piene mani da questo stesso concetto. Scrive Friedrich Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: «Il rovesciamento del diritto materno segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli». Engels ribadisce in questo modo un concetto espresso da Marx: «La famiglia moderna contiene in germe non solo la schiavitù (servitus), ma ben anche il servaggio, poiché essa in origine si connette con dei servizii agricoli». Parimente il socialista August Bebel, in La donna e il socialismo (1879), afferma: «Dall’inizio dei tempi l’oppressione è stato il comune destino della donna e del lavoratore […] La donna è stato il primo essere umano che conobbe la schiavitù, la donna fu schiava prima ancora che gli schiavi esistessero». Una retorica dunque ampiamente adoperata. Thorstein Veblen, che non è nemmeno femminista nel senso classico, autore de La teoria della classe agiata, scrive in quest’opera: «è fuori questione che la base del sistema industriale è la riduzione a capo di bestiame e che le donne sono tutte quante schiave». Per capire da dove nasce questa retorica femminista, cioè la sovrapposizione, più che l’analogia, tra l’istituzione della schiavitù e la condizione della donna, retorica che non fa differenza tra il femminismo della prima ondata e quello successivo, bisognerebbe risalire fino al Settecento, fino alle due grandi figure capostipiti del femminismo storico: Olympe de Gouges e, soprattutto, Mary Wollstonecraft.