di Fabio Nestola. Nell’analizzare i femminicidi o presunti tali, anche per il 2020 riscontriamo gli stessi problemi degli anni precedenti: non esiste un criterio di rilevazione unico, non esiste un database ufficiale di fonte ministeriale, diverse voci ufficiose divulgano dati discordanti tra loro, la maggioranza delle fonti (anche autorevoli) che citano dati sul femminicidio non pubblicano i casi concreti ai quali tali dati farebbero riferimento. È quindi estremamente complessa, come sempre, un’analisi dettagliata. A ridosso del 25 novembre vengono solitamente pubblicati i report Eures, Polizia, Carabinieri ed altri ancora; sempre però con una casistica non verificabile, priva sia dei nominativi delle presunte vittime di femminicidio, sia dei link alle relative notizie di cronaca. Quindi si tratta sempre di dati non verificabili. Tuttavia, come nelle occasioni precedenti, analizziamo gli elenchi pubblicati da “femminicidioitalia.info” e “inquantodonna.it”, due siti che i nominativi li pubblicano. Il primo dato che emerge è la già citata discordanza dei dati: 51 vittime in un elenco, 55 nell’altro. Alcuni casi poi compaiono in un elenco ma non nell’altro e viceversa, tanto che il computo dei due elenchi incrociati dà un totale di 68 episodi da gennaio a settembre, giusto per comprendere la confusione che regna tra chi alimenta l’allarme femminicidio. Infine, prima di entrare nei dettagli, salta agli occhi la rilevanza numerica sensibilmente inferiore a quella propagandata come “emergenza femminicidio”.
Negli anni i numeri sono cambiati (140/150 femminicidi all’anno) e gli slogan sono cambiati, passando da “un femminicidio ogni 36 ore” ad “uno ogni due giorni”, poi “uno ogni tre giorni” ed infine la moda del 2019 si è assestata su “un femminicidio ogni 72 ore”, allarme riportato ossessivamente ovunque lo scorso anno per poi tornare quest’anno a “un femminicidio ogni due giorni per il lockdown”, con l’exploit de “Le Iene” secondo cui durante la quarantena i femminicidi sarebbero “triplicati”, seguito da quello del giornalista Riccardo Iacona che, intervistato da Tiziana Ferrario, sostiene che “il più alto numero di omicidi è quello contro le donne, la prima causa di omicidio è il femminicidio. Un dato oggettivo”. Un allarme fittizio viene costruito e alimentato dalla teoria secondo la quale i femminicidi sarebbero in costante aumento da anni. Non è vero ma la narrazione omette sempre, va ricordato, di documentare i numeri della “mattanza”. Dall’analisi dei casi elencati come “femminicidi” emerge con preoccupante continuità l’errore di considerare un delitto di genere ciò che di genere non è. È importante analizzare nei dettagli tutti gli aspetti di un evento delittuoso, in quanto ciò che identificherebbe un femminicidio, rendendolo diverso dall’uccisione di una donna per qualsiasi altra ragione, è proprio il movente. Esclusivamente il movente. Analizziamo caso per caso, dunque, gli elenchi pubblicati, incrociando i nominativi presenti sui due diversi siti citati. Qui è possibile scaricare le risultanze di dettaglio del controllo, schematizzabili graficamente come segue:
Ripulitura delle notizie di “femminicidio” – (gennaio-ottobre 2020)
L’oppressione di genere non può essere il movente.
Dal 01/01/2020 fino all’01/10/2020 si hanno dunque in totale 68 casi, la maggior parte dei quali presenti in entrambi gli elenchi mentre alcuni compaiono solo in “femminicidioitalia” o “inquantodonna”. Di essi, 29 sono i femminicidi “propriamente detti”, secondo la definizione delle forze dell’ordine, Polizia di Stato e Carabinieri. Il dato più basso degli ultimi anni (furono 34 nel 2018, fonte Polizia di Stato, e 40 nel 2019, fonte Carabinieri), complice probabilmente il lockdown. Per il resto si tratta di casi che non hanno nulla a che vedere con la gelosia morbosa, il possesso, la mancata accettazione di un rifiuto, l’oppressione di genere, il patriarcato, la misoginia, le sovrastrutture culturali maschiliste, ovvero hanno un movente economico, o sono delitti fra anziani con vittima gravemente malata, drammi della solitudine o della disperazione. Vi si trovano inoltre delitti dove l’assassino è straniero, madri uccise dai figli con evidenti problemi psichiatrici (uno l’ha persino decapitata), omicidi attuati da persone in depressione, tossicodipendenti o affette disturbo mentale conclamato e in cura presso diversi Centri di Igiene Mentale o anche con TSO richiesti ma non eseguiti. Non mancano poi gli episodi conteggiati due volte perché citati ripetutamente con date diverse: sia il giorno dell’omicidio che il giorno del ritrovamento del cadavere o dell’arresto dell’assassino. Uno dei casi citati inoltre risale allo scorso anno.
Ci sono poi alcuni casi che definiremmo “particolari”. Ad esempio quello di Monica Diliberto: la strage del 31 gennaio a Mussumeli registra tre decessi, la madre, la figlia e l’ex amante della madre, che dopo aver ucciso le due donne si toglie la vita. Il movente passionale è verosimile per l’uccisione della madre, assassinata dall’ex che non accettava la separazione. Una morbosa sensazione di possesso, ipotizzano gli inquirenti, può avere armato la mano dell’assassino. Nulla di tutto questo è invece valido per la figlia, il movente non è passionale e non può essere ricondotto né alla mancata accettazione della separazione, né alla gelosia morbosa, né al possesso maschilista, al patriarcato, etc. Semplicemente la ragazza si è trovata nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, l’omicida ha fatto strage di chiunque fosse in casa compreso se stesso. Nessuno può escludere che la figlia sarebbe stata uccisa anche se fosse stata un figlio, un nipote, uno zio. Infatti le cronache riferiscono che “l’altro figlio di Rosalia si è salvato dalla strage perché non era in casa”. Quindi nonostante la seconda vittima sia una donna, l’oppressione di genere non può essere il movente.
Delitti della disperazione e della pietas.
Un altro caso particolare è quello di Elena Bressi. Il 27 giugno, Mario Bressi, in via di separazione dalla moglie, uccide i due figli e poi si suicida lanciandosi da un cavalcavia. Ha ucciso indifferentemente Diego ed Elena, senza distinzione di genere, la sua follia omicida lo avrebbe spinto ad uccidere e uccidersi anche se avesse avuto due figli maschi. Nel suo delirio ha ucciso i figli per non separasi più da loro, quindi per un eccesso d’amore patologico. Però, questa è la chiave di lettura data dai siti esaminati, quando ha ucciso Diego lo ha fatto per restare per sempre insieme a lui, quando ha ucciso Elena lo ha fatto per oppressione di genere. Quindi per Diego è dramma della follia, Elena invece è stata uccisa inquantodonna, quindi è femminicidio. Dinamiche simili si ripetono con continuità, anche in occasione di delitti con movente economico. Ad esempio la strage di Formia del 9 gennaio nasce da un’eredità contesa, l’assassino uccide la cugina Fausta Forcina e il marito, poi si suicida. Anche in questo caso tre morti, due uomini ed una donna. Per gli uomini il movente è esplicitamente legato a considerevoli interessi economici, per la donna bisogna fantasticare che sia stata uccisa inquantodonna per poterla inserire nel computo dei femminicidi. A questi si aggiunge il caso di Paola Maria Gaglione, già analizzato in precedenza, che il 13 settembre muore per una tragica fatalità. Il fratello di Paola Maria fa cadere lo scooter sul quale viaggiano lei e il fidanzato. L’obiettivo è proprio il fidanzato: dopo aver provocato l’incidente l’aggressore si scaglia su di lui per pestarlo e minacciarlo, vuole che interrompa il rapporto con la sorella. L’intento, anche se con modalità delinquenziali, è quello di proteggerla, non di ucciderla. Nemmeno si accorge che Paola Maria cadendo ha battuto la testa ed è morta.
I delitti fra anziani si trovano tra i femminicidi ad ogni verifica. Episodi in cui il marito 80enne uccide la moglie malata terminale per non farla più soffrire e poi si toglie la vita o tenta di farlo. Delitti unanimemente definiti della disperazione, della pietas, della solitudine, della depressione e della sofferenza. Si registrano casi in cui la decisione di farla finita è di entrambi, casi in cui lasciano scritto di essere sepolti insieme, casi in cui dicono di non voler essere più un peso per i figli, ma spacciati per delitti dell’oppressione di genere, del patriarcato, etc.. In un caso il genitore 74enne malato terminale si suicida insieme alla figlia disabile, che non poteva lasciare sola dopo la sua morte. Però è femminicidio.
Anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa è intollerabile.
Occorre poi fare una precisazione, come sempre quando analizziamo i dati sul femminicidio: lo scorporo dei delitti familiari fra cittadini stranieri. Non è una diminutio della gravità del gesto, né tanto meno una sottovalutazione della vita di una donna tunisina rispetto alla vita di una donna italiana. Ciò che va rilevato è che i delitti maturati in contesti socioculturali estremamente diversi da quello italiano vengono utilizzati per sostenere che l’Italia sarebbe un Paese patriarcale, oppressivo, maschilista e saturo di sovrastrutture culturali misogine. Ogni donna in Italia sarebbe a rischio di essere uccisa e il Paese dovrebbe essere bonificato rieducando gli uomini italiani. Tutti, non il criminale che uccide una donna. Quindi quando il cittadino pakistano uccide la moglie o il bengalese uccide la figlia, le notizie vengono inserite nel conteggio per sostenere che andrebbero rieducati il carabiniere casertano che li arresta, il PM fiorentino che li incrimina e il giudice bolognese che li condanna.
L’allarme per la presunta emergenza femminicidio viene utilizzato per sostenere, con una narrazione apertamente pilotata, che l’Italia sarebbe un Paese viziato dalla toxic masculinity, quindi intriso di sovrastrutture culturali maschiliste tali da portare gli uomini italiani a considerare la donna una proprietà esclusiva, della quale disporre a piacimento anche togliendole la vita. Per cui, a conclusione della teoria “emergenza femminicidio”, gli uomini italiani andrebbero rieducati. L’elemento dell’oppressione maschilista deve comparire come movente di una “donna uccisa inquantodonna”. Questo è lo slogan all’origine della corrente di pensiero che ha lanciato il termine “femminicidio”, inesistente sia come fattispecie autonoma di reato che come circostanza aggravante, ma entrato a far parte del lessico comune, soprattutto mediatico, grazie alla incessante campagna di vittimizzazione sebbene, stando ai numeri, quel lessico non trovi riscontri giustificativi. In conclusione, ripetiamo lo stesso principio espresso negli anni precedenti: questo lavoro di approfondimento non significa negare i femminicidi ma smascherare i falsi femminicidi, il che è cosa molto diversa. Anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa è intollerabile, ma dobbiamo chiederci chi ha interesse e perché a far finire di tutto nel calderone del femminicidio arrivando a contarne più del doppio.