Che cos’è l’odio? Difficilissimo rispondere a questa domanda, come d’altronde a quella opposta: che cos’è l’amore? Un’enormità di filosofi e letterati si sono cimentati per definirli e noi non abbiamo certo i requisiti per ambire ad aggiungerci ad essi. Tuttavia qualche umile riflessione ci sentiamo di farla, a partire da una sorta di prototipo e compendio dell’odio, che abbiamo trovato in un profilo Facebook pubblico intestato a tale Federica D’Alessio. Non è un profilo da influencer: ha un migliaio di amici e un migliaio di follower, dunque pressoché nulla sul piano delle unità di misura “social”. Però si definisce, e forse addirittura è, “giornalista”, e questo soprattutto ha attirato la nostra attenzione. L’abbiamo notata nel frangente delle polemiche contro la statua di Emanuele Stifano dedicata alla “spigolatrice di Sapri”. D’Alessio ha avuto parole di aspra critica e ha tentato di sollevare contro l’artista una classica shitstorm, che però è fallita miseramente. Questo suo tentativo ha attirato la nostra attenzione, così abbiamo letto con cura ciò che scrive: i suoi post sono frequenti, di solito lunghi e molto elaborati, e fanno rientrare la loro autrice nel perfetto standard della predicatrice “woke”. Nelle sue giaculatorie si ravvisano anzitutto uno spiccato femminismo intersezionale, contenente dunque anche immigrazionismo spinto, ecologismo cieco e tutto il restante armamentario ben noto. In aggiunta, e coerentemente con il tutto, c’è un allineamento espressivo alla sinistra d’antàn, con l’uso di termini come “padronato”, “borghesia” et similia. Un linguaggio antico, senza più alcuna attinenza con il presente, ma comunque ancora evocativo se inserito nella chiave di lettura basica e usuale: il mondo è fatto di sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori. Qualunque componente sociale si prenda in considerazione, la si può scomporre e incasellare nella dualità di quei contenitori asettici, anche a costo di molteplici contraddizioni.
Se dunque rinunciamo alla difficile opera di provare a definire l’odio, possiamo tuttavia azzardare un’ipotesi sul contesto interiore e intellettuale che favorisce l’insorgenza dell’odio. Si vede allora che il terreno più fertile è quello del rifiuto della complessità, della fuga dalla realtà per potersi ridurre dentro al riparo di una semplificazione estrema e schematica con cui darsi un’identità e leggere in modo tranquillizzante ciò di cui si ha più paura: la vita. Ben intesi, è umanamente molto comprensibile: c’è chi, uomo o donna indistintamente, aggredisce l’esistenza con coraggio e creatività e chi si ritira di buon grado di fronte alla sua complessità. I primi hanno sempre rappresentato l’eccellenza umana e i secondi una zavorra, è sempre stato così e sempre sarà. L’equilibrio tra le due parti è dato dagli ostacoli al loro dilagare verso gli estremismi, gli uni verso la tirannia, gli altri verso le conseguenze di confine della propria pusillanimità, ovvero verso la frustrazione e, appunto, l’odio. Perché, questo è certo, si odia anzitutto ciò che si sa di non riuscire ad essere o, secondariamente, ad avere (e conseguentemente si odia chi ha). Quell’odio dà un elemento identitario ai pavidi, li fa sentire qualcosa o qualcuno, e con ciò diventa il loro nutrimento. Ad esempio, dalle parole della D’Alessio traspare, filtrato dai suoi rigidi e ipersemplificati schemi di lettura, un odio profondo verso la bellezza, verso chi la coltiva e protegge, e verso la naturalità delle cose. Vedendosi respinto al mittente il suo tentativo di farsi condottiera di una shitstorm contro lo scultore Stifano, torna sul suo profilo a lamentarsi della «barbarie misogina e dell’analfabetismo funzionale sotto il profilo del noto scultore di chiappe». Lei che probabilmente non saprebbe fare una pallina con il DAS, tempesta così contro un artista e chi l’ha protetto dalle ondate d’odio da lei suscitate, ovvero coloro che lei definisce «orda maschile» che ha come unica forma di umanità «il Grande Pisello». Mente, la D’Alessio: la solidarietà a Stifano è stata espressa ugualmente da uomini e donne, ma ciò che smentisce il proprio odio identitario viene istintivamente sempre accuratamente nascosto. Senza contare che andrebbe indagata quella sua sessualizzazione criminalizzante dell’immagine maschile, che torna anche in altri suoi interventi.
La paura di vivere pienamente la vita.
Il problema per lei, in quanto prototipo perfetto di odiatrice femminista, sta proprio nell’incapacità di contenere il proprio malanimo. Le dita scorrono veloci sulla tastiera, ispirate dall’esibizione garantita da quella iattura che sono i social network. Non c’è limite, si può dire quel che si vuole, ed ecco allora che con totale disinvoltura la D’Alessio si augura che tutti quelli che hanno respinto la sua shitstorm contro Stifano «muoiano tutti il prima possibile». Non le hanno dato ragione, dunque sono «violenti, volgari e cattivi», come tali meritano di morire. Sconcertante, ma ipse dixit, una giornalista che, tra l’altro, scrive su anche “TPI”, non sulla gazzetta del quartiere. Ed ecco un’altra caratteristica dell’odio che nasce dal pensiero semplice: è come un gas, se non ha limiti si espande. E così per la D’Alessio gli uomini sono esseri con l’unica ambizione di mettere le mani addosso alle donne, e queste ultime, tutte (la D’Alessio pare voler parlare proprio a nome di tutte), provano paura, rabbia e repulsione sotto gli sguardi maschili, a riprova che esse vivono in uno stato di perenne sottomissione. Il suo pensiero è molto chiaro quando dice che «il costume di vita predatorio […] è un orrore, e la bava alla bocca degli uomini con il cervello pornificato ne è la più esatta rappresentazione possibile», coniugando questo concetto anche ad altri tipi di predazione (economica, ecologica e così via). Non stupisce che, con queste premesse, la D’Alessio dimostri il più ampio disprezzo per la paternità, che politicizza da una posizione di sinistra (ovviamente) e a cui attribuisce ispirazioni ideologiche tali da generare la «strage di donne». Non fa sorpresa che, tra l’altro, si schieri anima e cuore per la causa delle famose “mamme coraggio“, quella moltitudine a cui uno Stato maschilista e oppressivo strapperebbe sistematicamente i figli per darli in mano a padri che, in quanto maschi, ça va sans dire, sono sempre violenti e abusanti.
La colpa, va ribadito, non è della D’Alessio in sé. Lungi da noi dal farne una battaglia personale e anzi diffidiamo chiunque dall’andare sul suo profilo a controbattere, criticare, dibattere o peggio ancora insultare. La colpa è del fatto che realtà e vita sono ardue, difficili, maledettamente sfidanti e non tutti se la sentono di affrontarle per ciò che sono, assumendosi la responsabilità dei propri atti e dei propri pensieri. Costoro vanno compresi, in prima battuta, e limitati quando tracimano in una forma tangibile di odio senza freni e potenzialmente contagioso. Prima dell’era dei social era piuttosto semplice: il risentimento dei semplici e degli impauriti restava confinato nella cerchia delle conoscenze reali, che anzi contribuivano a calmierarlo impedendogli di dilagare. Oggi con i social media contenere le derive di persone così pericolosamente fragili da auspicare con disinvoltura, come fosse del tutto normale, la morte di chi dissente da loro, è pressoché impossibile. Restano poche strade da percorrere in questo senso. Anzitutto conoscere questi soggetti: già solo sapere che esistono rende coscienti del pericolo che corre la società tutta. Una volta compresi i loro strumenti d’odio, che sono sempre ipersemplificati, banali e contraddittori, una strada può essere quella di disarmarli. Non andando a fare inutili catfight sui loro profili (tanto non accettano mai il confronto), bensì raccontando loro la verità delle cose, o qualcosa che vi si avvicini il più possibile. Ed è così che, per parte, nostra, se dovessimo rivolgerci alla D’Alessio le diremmo semplicemente: sì, la vita è dura; uomini e donne la affrontano da sempre, talora da soli, talora assieme, in quest’ultimo caso da alleati e molto spesso amandosi. Qualche volta si manifestano anomalie nella loro relazione, altre volte vanno incontro a successi clamorosi, ma nella maggior parte dei casi la loro complementarietà garantisce una resistenza ordinaria ed efficace agli urti della realtà e della sua terrificante complessità. Agli uomini piacciono le donne e le donne cercano (e ottengono spesso) sicurezza negli uomini: in questo c’è l’innesco della loro complementarietà che ha creato oppressioni per tutti, ma le ha anche rovesciate determinando condizioni di evoluzione e libertà. È così, è sempre stato così e sempre sarà così, molto al di sopra di ogni teoria del conflitto lasciata talmente a briglia sciolta da generare odio e zizzania per tutti, solo come risposta alla più banale delle paure: quella di vivere pienamente la vita.