Ci sono due modi, non di più, per analizzare i fatti di cronaca, spesso purtroppo terribili e tragici. Il primo si basa essenzialmente su un piano emotivo, atto a suscitare nel lettore-ascoltatore-spettatore emozioni di pancia, innescando un coinvolgimento personale istintivo che non prevede un’elaborazione o un filtraggio razionale. L’obiettivo di queste analisi è portare il destinatario a immedesimarsi nella situazione, a pensare cose come: «e se al posto di questa vittima di oggi ci fosse mia figlia, mia sorella, la mia migliore amica…?». Quando si utilizza questo piano analitico, è inevitabile che la reazione immediata sia altrettanto “di pancia”, con risultati che è facile riscontrare scorrendo le reazioni al fatto di cronaca espresse sui più diffusi social network: richiami alla necessità di introdurre la pena di morte, insulti, retorica securitaria («servono leggi e pene più severe!») e l’immancabile richiesta di fondi pubblici a questa o quell’entità che dice di impegnarsi a prevenire ed evitare eventi luttuosi come quelli raccontati. Va da sé che l’uso di questo piano analitico è il più profittevole per gli operatori dell’informazione, quelli che scavano nella vita della vittima e del colpevole, che ricevono bisbigli e dritte dall’ambiente inquirente o che, quando non li ricevono, inventano di sana pianta. L’importante è il click sull’articolo ben infarcito di inserzioni, la visualizzazione, l’impression, che si traducono in soldi sonanti.
C’è poi un secondo piano, assai meno profittevole per i media e assai più arduo per i lettori-ascoltatori-spettatori, ossia quello che cerca di produrre un esame analitico dell’evento inquadrandolo in uno scenario generale, con lo scopo di capire se quanto avvenuto denoti una tendenza prevalente all’interno della società, se presenti caratteri comuni con eventi similari e precedenti e se, quindi, esista una possibilità di intercettare il disagio o le devianze che ne sono alla base. Certo, questo approccio è molto più freddo: si sofferma inizialmente e solo brevemente nell’espressione empatica di cordoglio per l’evento tragico che si commenta, ma poi passa oltre e con strumenti tutt’altro che emozionali, come i numeri e le statistiche, prova a filtrare il tutto collocandolo in una realtà il più possibile vicina ai fatti e alla verità. Di solito anche chi opera su questo piano analitico pensa che il fattaccio potrebbe accadere a un proprio affetto, ma nonostante ciò cerca di capire in modo razionale quante probabilità ci sono che accada. Usando questo metodo, costui o passa inosservato, o finisce per essere bersaglio degli strali di chi, invaso dall’indignazione e dall’empatia, non trattiene il proprio tracimante sentimento e auspica anche per l’analista in questione la pena di morte o poco meno. Storia vecchia e già nota: se non ti conformi al bisogno di massa di provare emozioni, ma cerchi anzi di farla ragionare, vieni vissuto e trattato come il Grillo Parlante di Pinocchio.
Quanti “ultimi incontri” ogni giorno?
Un caso di scuola nella diversa applicazione di questi piani riguarda il cosiddetto “ultimo incontro”. Con ciò si intende quell’evento che, dopo una separazione di coppia, uno dei due può chiedere all’altro per qualsivoglia motivo. Può essere per abbracciarsi o stringersi la mano un’ultima volta prima di dirsi addio, per sbattere in faccia all’altro tutte le sue mancanze durante la relazione, per discutere e litigare anche, perché no, sulla conseguente “divisione degli stracci” in comune, per cercare di addivenire a un accordo pacifico per la gestione dei figli (se ci sono) prima di rivolgersi a un giudice, insomma le ragioni possibili e non criminali per un ultimo incontro sono molteplici eppure, nel momento in cui avviene un fatto sangue, esso diventa per la città e il mondo la circostanza più pericolosa e letale che si possa incontrare nella propria vita. Vivere a Gaza oggi è, al confronto dell’ultimo incontro con l’ex, una passeggiata di salute, se si dà retta ai media e agli “specialisti” (criminologi, psicologi, psichiatri, avvocati e tutto il circo che prospera sui media) che pontificano in TV pasteggiando come sciacalli su un tragico fatto di cronaca dell’oggi. «Non andate all’ultimo incontro!», si sente tuonare dagli schermi, «è come presentarsi davanti a un plotone d’esecuzione!». Ma è vero o è una forzatura detta per estremizzare, sostenere un’ideologia specifica e fare scalpore o audience approfittando di un fatto di sangue?
La risposta la si trova facendo quella cosa antipaticissima, perché poco empatica, di guardare qualche numero e ragionare logicamente. Stando ai dati, nel 2022 hanno divorziato 83.192 coppie, pari a una media di 228 al giorno. Se a queste aggiungiamo una stima dei fidanzati o dei conviventi che si sono separati ma di cui, dato il loro rapporto informale, non ci sono statistiche, potremmo facilmente (e limitandoci) arrivare a una cifra di un migliaio di rotture al giorno nel nostro paese. Facciamo che, realisticamente, soltanto la metà di esse abbia avuto il suo “ultimo incontro”, otterremmo un quadro dove solo nello zerovirgola per cento dei casi quella circostanza rischia di finire in tragedia. La verità, insomma, è che l’Italia è un paese di persone per bene, dove di ultimi incontri, che finiscano con una stretta di mano o tra insulti assortiti, se ne fanno numerosissimi ogni giorno senza che accadano tragedie. Perché spesso l’ultimo incontro è necessario per una o entrambe le parti, per un fatto meramente organizzativo o anche solo per una pressione morale non negoziabile, senza che questo inneschi reazioni bestiali o criminali. Insomma, se si sta alla realtà dei fatti, è tutto un po’ poco per parlare di “plotone d’esecuzione”, istituzione della pena di morte, nuove leggi repressive e altre milionate a questo o quel soggetto sempre vorace di fondi pubblici. Ora già li sento, gli opinionisti o gli inebetiti dei social, mentre mi urlacchiano: «vallo a dire ai genitori di…» seguito dal nome dell’ultima vittima in cronaca. Che ci vuoi fare, è così che capita quando l’informazione di un paese è asservita ai soli stimoli peristaltici di una clientela serva del proprio ventre.