#Metoo è ormai diventato un termine di uso comune. Nasce nel 2006 ma esplode sui social tramite un hashtag nel 2017, sull’onda delle accuse di molestia sessuale che travolsero il produttore Harvey Weinstein. Oggi è definito come “movimento femminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne”, soprattutto nell’ambiente di lavoro. Ma nonostante se ne discuta talora come qualcosa di passato, il #Metoo è più vivo che mai: se l’hashtag non è più trendy e se in cronaca viene menzionato raramente, è solo perché a quanto pare denunciare uomini di successo, con incarichi più elevati nella gerarchia o in posizioni di potere, da caso episodico scandaloso si è trasformato in “moda” (per usare l’efficace formula venuta fuori in un caso recente di cronaca) e quasi non fa più rumore. Le dinamiche possono essere diverse ma con una costante: non importa che si tratti di molestie reali o inesistenti, di accuse sostanziate da fatti reali o basate sul nulla. L’essenziale è colpire il “privilegio” maschile. Anche se la sentenza di colpevolezza non arriva, si sarà mandato un messaggio alla società (non importa se per farlo si è sporcata per sempre la reputazione di qualcuno) riguardo i soliti uomini che abusano del proprio potere per molestare le donne. E se non vengono riconosciuti colpevoli è solo perché la magistratura è a sua volta colpevole di machismo tossico.
Un esempio recente illustra bene questa dinamica. L’accusato di turno è Christian Horner, ex pilota e ora dirigente sportivo di Formula 1 per il team Red Bull, vincitore di tredici titoli mondiali e sposato con la ex Spice Girl Geri Halliwell. L’accusatrice è la sua assistente personale Fiona Hewitson. Le accuse di “comportamento inappropriato” arrivano a gennaio e in un primo momento non viene reso pubblico alcun dettaglio: Horner nega tutto mentre la Red Bull conduce un’indagine interna, la quale si conclude sollevandolo da ogni accusa. La questione poteva finire lì: senonché un soggetto anonimo riempie una cartella Google Drive di screenshots di presunte chat private intercorse tra Horner e la Hewitson e la diffonde a oltre cento soggetti tra media e dirigenti e atleti della Formula 1. L’autenticità di queste conversazioni è a tutt’oggi non verificata: Horner non ha commentato in merito ma, come i lettori potranno valutare, anche nell’ipotesi che siano autentiche emergerebbe sì un affaire extraconiugale tra i due, ma anche la partecipazione consensuale di entrambi, fino a qualche ripensamento da parte della componente sposata della coppia clandestina, che l’altra componente non ha mandato giù bene (topos classico, rappresentato in migliaia di romanzi e film). Pochi giorni dopo, il 7 marzo, la Red Bull sospende Fiona Hewitson dall’incarico. La Hewitson non ci sta, e il 16 marzo ha fatto ricorso presso la FIA (Federation Internationale de l’Automobile, l’organo che governa sulla Formula 1). In quanto sposato e “capo” della donna in questione, se le chat rispecchiassero una situazione autentica potremmo sostenere che Horner non si sia comportato in maniera seria e professionale: ma tutto qua. Non ci sembra di riscontrare nulla di penalmente rilevante e, a dirla tutta, neanche di interesse pubblico.
Dal singolo (spesso incolpevole) al “sistema”.
Il #Metoo però non c’entra nulla con i fatti o la giustizia: la sua essenza sta nel cancellare totalmente la responsabilità femminile e interpretare ogni vicenda di questo tipo sotto la chiave dell’abuso di potere da parte dell’uomo, potenzialmente estendendo il discorso dal singolo soggetto “abusante” all’intero “ambiente maschilista e tossico”, fino all’intera società “patriarcale”. Ad esempio così ha titolato Izzie Ramirez su Vox: «Il vero scandalo nella Formula 1 è l’atteggiamento verso le donne: il presunto scandalo che ha coinvolto Christian Horner non è mero gossip, ma riflette la misoginia sistemica diffusa in questo sport». L’articolo prosegue sottolineando come questo episodio possa far sentire insicure e a disagio le donne che lavorano in F1 e denunciando come si tratti di un ambiente dominato dalla solita categoria: «maschi bianchi di mezza età». Elizabeth Blackstock nel suo commento su The Drive è ancora più esplicita: «Non ha importanza come giudichiamo Horner: la vicenda dovrebbe essere vista come un pungolo affinché il mondo della Formula 1, storicamente maschilista, affronti la sua lunga tradizione di disequilibri di potere, specialmente quello tra uomini e donne». Se ancora non fosse abbastanza chiaro: «La questione in gioco non riguarda le azioni specifiche di qualcuno o le accuse contro un particolare individuo. La questione è il potere. La conclusione dell’inchiesta non ha importanza: un potente dirigente nella F1 ha agito in modo tale da far sentire una donna a disagio al punto da denunciare il suo comportamento e cercare una compensazione: questo è uno squilibrio di potere che la F1 ha il dovere di affrontare».
In pratica: non importa se le accuse sono vere o false, se si rovina la carriera di qualche uomo, se intere compagnie devono perdere tempo con inchieste interne etc.: conta solo come una particolare donna si è sentita, e su questa base bisogna colpire l’intera struttura della Formula 1. Questa è l’essenza del #Metoo oggi, colpirne uno per educarne cento e sovvertire nel frattempo intere strutture di potere. Era già chiaro fin dal 2018 quando l’intera compagnia di Harvey Weinstein fu denunciata dallo Stato di New York per la «lunga storia di ostilità ‘di genere’ nell’ambiente lavorativo, il pattern di molestie sessuali quid pro quo e l’abuso delle risorse aziendali per scopi illeciti». Lo confermano altri casi analoghi e più recenti: ad esempio le sei donne che, affermando di essere state vittime di «catcalling e commenti sgraditi sul proprio aspetto e vestiario» hanno denunciato la Tesla di incoraggiare una «cultura della molestia sessuale»; le tre studentesse che hanno denunciato l’Università di Harvard per aver reputato infondate le loro accuse a danno di un docente; o il centinaio di dipendenti della McDonald’s che hanno accusato la compagnia, tramite la BBC, di mantenere l’ambiente di lavoro impregnato di una «cultura tossica di molestia, violenza sessuale, razzismo e bullismo»: in seguito a tali accuse lo studio Leigh Day, specializzato in questioni di social justice, ha intentato un’azione legale collettiva contro la catena di fast foods.
Giù gli uomini, su le femministe.
Sia chiaro: si continua anche a colpire i singoli. Su queste pagine avevamo documentato il caso di Marilyn Manson (che si sta chiudendo nel nulla, com’era prevedibile, e nel frattempo la rockstar ha annunciato il primo tour dopo la tempesta), quello di Luis Rubiales, e la fine del travaglio legale di Kevin Spacey. Nel settembre ’23 sono assurte alla cronaca mondiale le accuse a Russell Brand, controverso personaggio dello spettacolo e in tempi recenti della “controcultura”: anche queste tramite un’inchiesta giornalistica piuttosto che una denuncia formale; e come da schema tradizionale del #Metoo, anche queste provenienti da “vittime” perlopiù anonime e legate a presunti fatti risalenti a un periodo tra i dieci e i diciassette anni prima. Da allora, tra i nuovi accusati si contano: lo scrittore e giornalista Yascha Mounk (di cui Fabio Nestola ha scritto qui); il sindaco di New York (per presunti fatti risalenti a trent’anni prima); un popolare Tiktoker sud-coreano, Seo Won-Joeng; Cuba Gooding Jr. (per presunti fatti risalenti a quattro-cinque anni prima); Jamie Foxx (presunti fatti di otto anni prima); il frontman degli Anti-flag Justin Sane (già bersaglio di accuse a grappolo da diverse presunte vittime); Gerard Depardieu (già sotto inchiesta dal 2020 per una diversa accusa); il produttore musicale Jimmy Iovine (vittima anonima, presunti fatti risalenti al 2007); cinque hockeyisti professionisti canadesi; Axl Rose dei Guns’n’Roses (presunti fatti del 1989); il quarterback dei Dallas Cowboys Dak Preston (da parte di una donna che aveva lui per primo denunciato per tentata estorsione); il rapper Sean Combs (presunti fatti del 1990). La lista potrebbe continuare, e stiamo parlando solo degli ultimi mesi. Per ampliare e diversificare l’offerta di accuse, qualche giorno fa è partito in Francia anche il “#Metoo al maschile”, per vittime maschili di violenza, «sostenuto anche da alcuni movimenti femministi»: ovviamente sottolineando che in oltre il 90% dei casi i perpetratori sono comunque uomini e che le vittime «Sono vittime del dominio patriarcale, che è qualcosa di strutturale».
Molti commentatori (ad esempio qui e qui), facendo un bilancio del #Metoo, si sono lamentati del fatto che sebbene le accuse innescate dal “movimento” siano state innumerevoli, le condanne definitive siano state molto poche. Un misogino maschilista potrebbe dirsi ben poco sorpreso, vista la fondatezza media delle accuse, il tipo di fatti contestati e dopo quanti anni mediamente vengono fuori: ma tutti sappiamo che la colpa è della magistratura patriarcale e dell’oppressione sistemica delle donne. Questi bilanci comunque non colgono il punto, che invece è ben descritto da un’analisi a più mani pubblicata dal New York Times: «Almeno 200 uomini di elevato status hanno perso il lavoro dopo aver ricevuto accuse pubbliche di molestia sessuale. E quasi la metà di questi sono stati sostituiti da donne. ‘Non abbiamo mai visto nulla del genere prima’, dice Joan Williams, docente di legge che studia gender all’Università della California. ‘Assumere una donna era sempre vista una scelta rischiosa, perché magari le neo-assunte potevano decidere di avere un bambino… Ma oggi gli uomini sono una scelta ancora più rischiosa’ . La nostra analisi mostra che il #Metoo ha scosso, e ancora scuote, le strutture di potere nei settori fondamentali della società. Il 43% degli uomini che hanno perso il lavoro a seguito di accuse di questo tipo sono stati sostituiti da donne: un terzo di queste nei media, un quarto in politica, un quinto nel mondo dell’arte e dell’intrattenimento». Ecco il nocciolo della questione: non c’entra nulla la giustizia, né la tutela delle (reali) vittime, l’essenziale è il sovvertimento delle strutture di potere, facendo leva sull’accusa di abuso di potere a scopo sessuale. E il processo continuerà finché dal 43% non si arriverà al 100%. Giù gli uomini, su le femministe.