La libertà di espressione è sotto attacco in Europa. È ormai esplicita in alcuni paesi, compreso il Regno Unito, una politica restrittiva sulla libertà di espressione sui social media. Sono molti i casi di persone che si sono viste sotto inchiesta e perseguite dalle forze dell’ordine per aver espresso libere opinioni attraverso il web. L’ultimo caso che sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale è un recente episodio della trasmissione 60 Minutes di CBS News, intitolata “Policing the Internet” (qui la trascrizione completa): «Negli Stati Uniti» ha spiegato la presentatrice Sharyn Alfonsi «ciò che si esprime su web, anche quando si tratta di contenuti tossici o carichi d’odio, è protetto dal Primo Emendamento. In Germania invece si sta cercando di riportare la civiltà nel discorso online: le autorità hanno cominciato a perseguire i ‘troll’. Martedì scorso abbiamo seguito la polizia tedesca in un raid in un appartamento privato nel nord-ovest della Germania. Sei ufficiali armati hanno perquisito il domicilio di un sospetto e requisito il suo cellulare e il laptop, usati per commettere un reato. Quale? Aver postato una vignetta razzista online. In quell’esatto momento in tutta la Germania erano in corso oltre 50 altri raid simili, come parte di uno sforzo coordinato contro l’hate speech» (‘discorso d’odio’). Segue l’intervista a tre procuratori tedeschi, Fink, Laue e Meininghaus. Alla domanda di Alfonsi «Se qualcuno dice una cosa non vera, e qualcun altro condivide o mette un ‘like’ al post, quest’ultimo sta commettendo un reato?» Meininghaus risponde: «Sì, perché chi legge non può sempre distinguere la fonte. La sanzione per chi viola la legge sull’hate speech è una multa e la confisca dei dispositivi al primo episodio, ma può arrivare alla detenzione per chi è recidivo».
Il problema dell’hate speech è quello che fu da più parti sottolineato nel dibattito sul ‘Ddl Zan’: chi decide, e come, dove sta il confine tra un ‘discorso d’odio’ da sanzionare, e la libera e creativa espressione di un pensiero legittimo? È evidente che se l’hate speech è definito in un modo vago e che va oltre la diffamazione e la minaccia (reati oggettivamente inquadrabili), è estremamente facile scivolare dalla giusta tutela della reputazione e della integrità di persone specifiche, al controllo autoritario e politicamente orientato delle opinioni e dei termini che possono o non possono, anzi non devono, circolare nel discorso online, come nel caso della “vignetta razzista” menzionato da Sharyn Alfonsi. Ci ha pensato il vicepresidente degli Stati Uniti, J. D. Vance, a sottolineare questo aspetto in un discorso tenuto a Monaco lo scorso 14 febbraio alla Conferenza sulla Sicurezza: «La minaccia per l’Europa che mi preoccupa maggiormente non è la Russia, non è la Cina, non è un agente esterno: è una minaccia dall’interno, il passo indietro che l’Europa sta compiendo rispetto a quei valori fondamentali un tempo condivisi con gli Stati Uniti d’America. A molti di noi dall’altra parte dell’Atlantico sembra che si stiano difendendo, dietro formule da regime sovietico come ‘misinformazione’ e ‘disinformazione’, dei nuclei di interesse a cui non piace che la gente possa esprimere opinioni diverse da quella loro gradita. Penso a Bruxelles, dove i commissari dell’UE hanno annunciato ai cittadini l’intenzione di oscurare i social media in momenti che loro giudicano di instabilità sociale, o alla stessa Germania, dove le forze dell’ordine hanno perseguito dei cittadini sospetti di aver postato commenti anti-femministi online, come parte di una ‘lotta contro la misoginia’».
La fallace eredità di Popper.
Vance ha menzionato anche altre nazioni europee e il Regno Unito, dove ad es. un uomo è stato condannato a due anni di reclusione e una multa di 9.000 sterline per aver pregato in silenzio fuori da una clinica per l’aborto, in ottemperanza alla legge sugli “spazi sicuri”, introdotta nel 2022, che vieta proteste e veglie in un raggio di 150 metri dalle cliniche. D’altra parte anche il governo britannico aveva annunciato l’estate scorsa di voler considerare contenuti ‘anti-femministi’ alla stessa stregua del terrorismo, sempre con la scusa della “lotta alla misoginia online”, come avevamo segnalato al tempo. «Tutto ciò ha un sapore orwelliano» ha concluso Vance, «e tutti in Europa e negli USA devono respingere questa follia». E noi siamo pienamente d’accordo. Ma ovviamente non si sono fatte attendere le reazioni, improntate all’argomentazione secondo cui la libertà di espressione e circolazione delle idee costituirebbe un pericolo, perché determinate idee, se lasciate libere di circolare, avrebbero il potere di innescare una catena d’odio, violenza e addirittura regimi autoritari: sarebbe la “tolleranza dell’intolleranza”, esplicitamente teorizzata dagli ambienti culturali e politici da cui la cultura woke ha origine come qualcosa da combattere e reprimere (ne avevamo parlato qui), ma quanto mai attuale (chi scrive è stato più volte testimone di argomentazioni come “non si può essere tolleranti verso gli intolleranti”, usate a difesa della censura di post o commenti rei di esprimere determinate idee e posizioni sgradite).
Ad esesmpio, il cancelliere Olaf Scholz ha commentato «Le democrazie moderne in Germania e in Europa sono fondate sulla consapevolezza storica che la democrazia può essere distrutta dagli anti-democratici radicali. Per questo abbiamo creato istituzioni che assicurano la possibilità per le nostre democrazie di proteggersi dai propri nemici, e regole atte non a restringere o limite la libertà, ma a proteggerla». D’accordo, ma in che senso sanzionare una vignetta e minacciare la galera per eventuali recidive equivarrebbe a proteggere la libertà e la democrazia? Emblematico il commento di una giornalista della CBS, Margaret Brennan, host della trasmissione Face the nation durante un’intervista al segretario di stato USA Marco Rubio. Alla domanda «A cosa è servito il discorso di Vance, se non a irritare i nostri alleati europei?», Rubio risponde: «Perché dovrebbero essersi irritati per la libertà di parola, per qualcuno che dice la propria opinione? Dopotutto siamo democrazie. La conferenza sulla sicurezza di Monaco è un incontro tra democrazie, in cui si dà valore alla possibilità di parlare liberamente e esprimere le proprie opinioni», al che Brennan tira fuori l’argomentazione suddetta: «Vance si trovava in una nazione dove la libertà di parola è stata in passato utilizzata per arrivare a condurre un genocidio». Rubio ha prontamente rintuzzato la presentatrice: «No, non posso essere d’accordo. Quel genocidio fu condotto da un regime autoritario, quello nazista, che odiava esplicitamente gli ebrei e le minoranze. E non c’era libertà di parola nella Germania nazista. Non esisteva. Non c’era neanche un’opposizione. L’esempio che ha fatto non riflette correttamente la storia».
La libertà di parola è intrinsecamente non-violenta.
Lo stesso Vance ha reagito alla tesi di Brennan. Il giornalista di National Review Michael Dougherty aveva ironizzato su X «Questa è la prima volta che sento dire che l’Olocausto non è stato fatto con le camere a gas ma con la libertà di parola», post ripostato da Vance che ha aggiunto: «È uno scambio folle. Davvero i media pensano che l’Olocausto sia stato causato dalla libertà di parola?». Può sembrare delirante, ma è precisamente il modo distorto di ragionare che sta dietro ogni giustificazione della limitazione della libertà di opinione e di espressione che faccia leva sulla retorica della “lotta contro l’odio” e sulla fallacia secondo cui le parole sarebbero equiparabili alla violenza fisica, in quanto avrebbero il potere di causare stress psicologico e incitare altre persone a commetterla. In realtà lo scivolo pericoloso verso un regime autoritario, e gli orrori che ne possono seguire, è segnalato precisamente da un primo passo che è quello di limitare la libertà di espressione. Fu così anche per la Germania nazista, con buona pace di Brennan e di tutti quelli che la pensano come lei, come Richard Delgado, intellettuale woke che ha sostenuto che la Repubblica di Weimar avrebbe peccato di “tolleranza dell’intollerante”, e avrebbe potuto scongiurare l’ascesa del nazismo limitando la libertà di espressione.
Di fatto Weimar mise in atto una feroce repressione contro il movimento nazista nascente, con leggi che proibivano i “discorsi d’odio”, specialmente quelli antisemiti, e consentivano la censura della carta stampata su questa base: repressione che non solo finì per portare molti dalla parte dei nazisti, ma questi usarono l’impalcatura di leggi già pronta dal regime precedente per giustificare le loro proprie repressioni, una volta saliti al potere. Chiudiamo citando parole che vengono da lontano ma che facciamo nostre, uno statement del Free Speech Union neozelandese, pubblicato in reazione a un attacco terroristico di matrice fondamentalista islamica nel settembre 2021: «La violenza in nome di un’ideologia è il polo opposto della libertà di parola: è il tentativo estremo di mettere a tacere coloro che hanno un’idea diversa. Le diversità di opinione devono essere attraversate mediante la ragione e il dialogo. Mai con la violenza. Mai con l’intimidazione. Coloro che si rifiutano di risolvere le differenze ideologiche mediante le parole, sono coloro che finiranno per ricorrere alla violenza. Coloro che si rifiutano di entrare in rispettoso e civile dialogo con chi la pensa diversamente, sono coloro che per primi si trasformeranno in estremisti carichi d’odio. La libertà di parola – il diritto umano fondamentale di esprimere la propria opinione – è un principio intrinsecamente non violento».