di Redazione. Di Eleonora De Nardis, ex giornalista RAI, si è occupato ampiamente il blog precedente (qui e qui), ma vale assolutamente la pena di tornarci sopra, perché non è un personaggio da nulla, tutt’altro. È un simbolo, anzitutto. Una portavoce della strenua lotta delle femministe contro la violenza sulle donne. In questa veste si è compiaciuta di compilare alcuni libri, il primo dei quali, intitolato “Sei mia, un amore violento”, presentato in pompa magna in Senato nel 2019, tra baci e abbracci con le senatrici PD Valeria Valente e Valeria Fedeli. Una presentazione poi notiziata con tutti i crismi da ogni obbediente redazione mainstream, con la sezione “Mind the Gap” del Messaggero in pole-position. Ma quelle senatoriali non sono le uniche frequentazioni altolocate di Eleonora De Nardis. La sua credibilità è talmente consolidata da consentirle di continuare a pubblicare libri a tema, andando a presentarli in giro per l’Italia, e di partecipare a convegni, seminari e incontri, di persona o via web, insieme alle migliori teste del femminismo nazionale.
La gloriosa galoppata della De Nardis sembra in effetti inarrestabile, tutti la vogliono, tutti la invitano, la sua agenda è piena. In agosto a far coppia con lei, per la presentazione in Abruzzo del suo nuovo libro “Un’idea di noi”, c’era la deputata PD Stefania Pezzopane. Dall’Abruzzo poi il suo tour trionfale è sbarcato a Roma, nel sancta sanctorum, ossia presso la sede (gravata da ampia morosità del canone di locazione) della Casa della Donna di Roma, dove di nuovo si è tenuta una presentazione, anche in questo caso alla graziosa presenza di una deputata PD, Titti Di Salvo. Ma l’instancabile paladina dell’antiviolenza non si è fermata nella capitale: in men che non si dica, a inizio settembre, è tornata nella sua regione d’origine, a Lecce, sempre per portare il verbo della propria nuova produzione letteraria, stavolta accompagnata nientemeno che da una professoressa universitaria di storia, una psicologa e un’attrice. L’apoteosi pochi giorni fa, il 23 settembre, con la sua partecipazione al Festival del Giornalismo tenutosi a Ronchi dei Legionari, in Friuli. Lì, nelle vesti di (leggete bene) “attivista per i diritti civili, le pari opportunità e una nuova stagione femminista”, ha partecipato al dibattito intitolato “Quando le donne hanno iniziato a pensare a voce alta. Dalle suffragette al #Metoo: l’evoluzione del movimento femminista”, insieme a pezzi da novanta come Oscar D’Agostino (“Il Messaggero”), Giulia Blasi (nota turbofemminista italiana), Carmelina Calivà (presidente di un’associazione femminista) e Giorgia Serughetti (ricercatrice presso l’Università Milano-Bicocca).
Aveva “la certezza di non essere creduta fino in fondo”.
Chapeau! diremmo, un po’ tosianamente, per questa eroina esemplare dei giorni nostri. Se tante persone la stimano così tanto da affiancarla nelle presentazioni o da invitarla ai convegni, vuol dire che viene giudicata come autorevole e soprattutto credibile. Tra queste persone però sembrano non esserci i giudici del Tribunale di Brindisi, che nel giugno scorso l’hanno condannata a sei anni di reclusione per lesioni aggravate a danno del suo ex compagno, l’avvocato Piero Lorusso, da lei accoltellato più volte, nell’agosto 2016 a Ostuni, con una lama di 20 centimetri. Tre giorni fa il Tribunale ha pubblicato le motivazioni della sentenza, trentun pagine tutte la leggere, sicuramente più avvincenti degli ultimi parti letterari della De Nardis. I giudici hanno ricostruito gli eventi con precisione e a leggere l’accaduto pare di vedere in sequenza “The shining” di Kubrick e “Kill Bill” di Tarantino. Coltellate, sangue a spruzzo, urla bestiali di lei (“sei un porco schifoso!”) e quelle di dolore di lui, sentite da numerosi testimoni del pub sotto casa. Nella concitazione, lui ha cercato di parare i colpi e solo quando il pavimento è diventato troppo scivoloso per il sangue lei ha smesso di colpire, permettendo a Lorusso di scendere a chiedere aiuto in strada e da lì finire in codice rosso al pronto soccorso.
Del resoconto dei giudici colpisce anzitutto che la donna abbia agito per astio e gelosia, quei sentimenti che, così dice la versione femminista, ispirano violenza soltanto agli uomini. E ha agito con decisione, senza nemmeno aiutarlo a chiedere soccorso dopo l’aggressione, senza nemmeno sporgersi dal balcone (come testimoniato da molti), quindi “in assenza di pentimento o ravvedimento”. La polizia verificherà poi che in quegli istanti era troppo occupata a lavare il coltello, a eliminare il sangue sparso per la casa e a fare le valigie. Gli agenti sono arrivati in tempo per intercettarla e sequestrare un sacco della spazzatura pieno di asciugamani resi marroni dal sangue rappreso, pronto probabilmente per essere gettato via. Il resoconto della De Nardis su questo frangente viene giudicato “inquietante” dai giudici: “la situazione era quella di una scena di un delitto efferato, perché c’era sangue veramente dappertutto, un odore fortissimo, acre. E ho fatto quello che faccio normalmente quando cade un vasetto di marmellata a terra o quando uno entra con le scarpe di fango dentro casa, cioè ho iniziato a pulire”. All’arrivo degli agenti fa quasi il gesto di abbracciarli. Non ricorda cosa ha detto nel frangente, ma solo che aveva “la certezza di non essere creduta fino in fondo”. Cosa ci fosse mai da credere, nell’immaginario della De Nardis, lo si capirà in breve.
Emerge un profilo molto molto chiaro del personaggio.
Scrivono i giudici: “in alcun modo può darsi realmente credito alla tesi difensiva dell’imputata, che vorrebbe De Nardis Eleonora vittima silenziosa del reato di maltrattamenti, soggetto vessato per più anni dalla condotta pervicace e violenta del convivente, che per una sorta di ribellione al proprio carnefice avrebbe quindi agito per difendersi e per difendere i propri figli, ad un certo momento addirittura minacciati di morte dall’uomo”. Sì, proprio così: la De Nardis ha provato a passare per vittima che si difende. Ha asserito che quella sera l’uomo stesse aggredendo lei e i bambini nell’altra stanza con “grida che non sembravano umane”, ma che i numerosi testimoni non hanno sentito (di Lorusso hanno percepito soltanto le grida di dolore…). Ma non sono solo i testimoni, bensì tutto l’impianto del procedimento a far dire che “qualunque prospettazione che voglia l’imputata vittima o difensore armato a protezione di sé o di altri è incompatibile con tutte le emergenze istruttorie”. In una parola: fuffa, fumo negli occhi degli inquirenti, gettato sperando nel trattamento di favore riservato alle “donne vittime di violenza”. Non stupisce, in questo senso, se i magistrati sono portati a descrivere la donna come “particolarmente contrassegnata da scaltrezza e disinvoltura”. Nessuna “patente giustificativa”, insomma. Stavolta è andata buca.
Durante il dibattimento la giornalista non ha mancato di lamentarsi del fatto che “le donne non sempre vengono credute”, cosa che ha rafforzato nei giudici l’idea di avere a che fare con una “condotta opportunistica e strumentalizzante”. Ne è prova ulteriore la risposta della De Nardis a una di quelle che vengono considerate “domande proibite” dal femminismo: “se lui la maltrattava ed era violento, perché non l’ha lasciato?”, le ha chiesto l’avvocato di parte civile. Testuale dalle motivazioni della sentenza: “De Nardis dichiarava di non aver mai voluto interrompere realmente la convivenza con Lorusso (che le consentiva un tenore di vita particolarmente agiato), per ragioni anzitutto economiche, nonostante l’assegno di mantenimento di circa 2.000 euro mensili riconosciuto con la separazione dal primo marito”. Dal tutto emerge insomma un profilo molto molto chiaro del personaggio. Ed è anche quel profilo ad aver indotto i magistrati a non concedere alcuna attenuante, pur irrogando il minimo edittale per il reato contestato (ovvio che a un uomo avrebbero dato il massimo della pena; anzi sarebbe stato incriminato per tentato omicidio, altro che lesioni).
La lettura integrale delle motivazioni della sentenza De Nardis rimane in ogni caso davvero rivelante. È la conferma, scolpita nelle parole di un procedimento penale, di quanto abbiamo sempre detto sulla questione “violenza di genere”, ma anche la disconferma totale di ogni singola asserzione o slogan femministi o della grande industria dell’antiviolenza. Resta solo da risolvere un unico problema: quel mondo capovolto in cui molti (andate a rileggervi i nomi nei primi due paragrafi di questo articolo) invitano una Eleonora De Nardis a presentare i suoi libri, la affiancano o a la fanno parlare in seminari e convegni nelle vesti di “attivista per i diritti civili, le pari opportunità e una nuova stagione femminista“. A meno di non pensare, e sarebbe più che legittimo, che è diventata un simbolo del femminismo proprio perché è andata vicino ad ammazzare un uomo che poi ha accusato falsamente di violenza, dopo essersi giovata per anni delle sue risorse economiche. Un en plein. A conti fatti, dunque, poche più di Eleonora De Nardis possono farsi portavoce del femminismo. Probabilmente ne sarebbe la rappresentante incontrastata, se solo fosse riuscita ad ammazzare Piero Lorusso.