Ogni tanto, grazie a qualche battagliera amazzone da tastiera frustrata da uno dei tanti aspetti della realtà che quelle come lei chiamano fantasiosamente “patriarcato”, riciccia fuori una delle innumerevoli puttanate dell’onnisciente intellettuale Michela Murgia. Nello specifico (e le faccio persino l’onore di citarla testualmente come se fosse una scrittrice) questa: «Non credete a chi dice che “signora” è un segno di rispetto: nessuno, in un contesto professionale, chiamerebbe «signore» un uomo che ha un titolo di studio. Solo da voi si pretende che, prima di avere un perché, dobbiate specificare se nella vita avete anche un per chi. Se avete passato un quarto della vostra vita a studiare, laurearvi, prendere un dottorato, imparare una lingua in più e fare un master di specializzazione, chiamarvi “signora” o “signorina” è un modo per ricordarvi che la vostra competenza viene comunque dopo il vostro status civile in rapporto a un uomo». Mecojoni, anzi, pardon, mevulva. Un maschio cattivo non mi ha chiamato “dottoressa”, dopo tutta la fatica che ho fatto per prendermi una triennale in Scienze delle Merendine (Maiuscolo), adesso piango, ma alla prima occasione non mancherò di dare di frignone agli uomini che dicono “not all men”.
La prima cosa che penso di fronte a queste vibrate proteste è che abbiamo fatto laureare troppa gente. Questo feticismo per i titoli di studio è sempre direttamente proporzionale alla mancanza di personalità dell’individuo da cui proviene; e chissà come mai (mia osservazione personale, ma posso sbagliare) normalmente questo individuo è quasi sempre di sesso femminile. Quasi mai si sente un uomo presentarsi assertivamente e minacciosamente come “sono il dottor X”: forse perché noi uomini possediamo una cosa chiamata “senso del ridicolo”, che ci previene, tra le altre cose, dal coniare neologismi deliranti come “femminicidio”. E quasi sempre poi l’individuo di cui sopra esibisce anche un paio di occhialoni rotondi tipo segretaria nascostamente sexy di un film degli anni ‘80, di quelle che poi alla fine sciolgono la crocchia scuotendo la testa e oltre a una chioma lucente rivelano un corpo da modella. Le analogie finiscono lì, perché l’individuo in questione si ferma agli occhiali e più che una segretaria sexy sembra la banale secchiona che è. E dal momento che il femminismo ci insegna che i casi minoritari (come la violenza domestica subita dagli uomini) non vanno tenuti in conto, questo discorso sarà rivolto al femminile.
Chi era utile e chi no.
Cara dottoressa con la triennale in Fuffologia Fuffistica, che non avendo altri coriandoli a cui aggrapparti fai una questione di vita o di morte quella di essere chiamata “dottoressa”, manco fossi un chirurgo del cervello che forse ti servirebbe pure: in realtà, malgrado la tua spiacevolezza, in parte volontaria e in parte no, mi fai quasi tenerezza. Come se tutte le tue lauree, diplomi, master, veramente certificassero il livello di istruzione che ti sei convinta di possedere. Con questa iperscolarizzazione di cui vai tanto orgogliosa potrai, se ti va bene, trovare quell’impiego da burocrate dell’orrore davanti a un computer che ti garantirà uno stipendio senza fare un tubo, nel quale comunque ti illuderai di essere sprecata, ipercompetente, sottovalutata, iperqualificata, sottoimpiegata; potrai magari trovare lavoro in un centro antiviolenza, tanto paga Pantalone; o peggio ancora, tentare il concorso per insegnare e moltiplicare la tua ignoranza, tanto il tempo è galantuomo, anzi galant-donna, e ormai tempo qualche anno passano di ruolo cani e porci.
Ma mentre tu per tutti quegli anni “faticavi” tanto a studiare e a fare vita da fuorisede senza avere mai contribuito al PIL di nessuno stato, e anzi divorando una quantità di risorse che molti riterrebbero esosa, in tutto quel frattempo, c’era qualcuno che invece lavorava in cantiere; che curava anziani non autosufficienti, tra cui nonnetta che quando ti ricordavi di andare a trovarla a Natale e Pasqua ti allungava sempre quei cinquanta euro di nascosto dallo sguardo truce della badante rumena; che lavava piatti di studentesse fuorisede mantenute da papà che nei giorni infrasettimanali vanno a mangiare sushi all you can eat, proprio come te; che stava alla cassa del discount dove tu prendi l’olio tunisino di sottomarca; che coltivava i campi e allevava i polli con cui erano fatte le spinacine che compravi nel discount di cui sopra, e tante cose ancora: insomma, qualcuno che alla società è stato infinitamente più utile di te. E che, però, non rompe tanto i coglioni: e te lo dice un laureato.