Di Donatello Alberti sappiamo solamente che fino a qualche giorno fa era direttore della Croce Bianca dell’Emilia Romagna e come moltissime persone al mondo aveva un suo profilo Facebook, a cui consegnava i suoi pensieri, dai più profondi ai più sciocchi e disimpegnati. A questo servono i social, o no? Pare di no. Capita infatti che Donatello decida di commentare l’orribile omicidio volontario commesso dal giovane Giovanni Padovani a danno dell’ex fidanzata Alessandra Matteuzzi, un terribile fatto di cronaca di cui hanno parlato tutti i media. Donatello si trova coinvolto in una serie di commenti sul delitto, da qualche parte su Facebook, e decide di dire la sua: «Comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso». In altre parole, Donatello dà voce a ciò che in moltissimi, oltre lui, hanno pensato vedendo le foto della vittima, pubblicate a raffica sui social e sui mass media. Alessandra, la vittima, a dispetto dei suoi 56 anni suonati, appariva in effetti bellissima, curatissima, molto sensuale. Difficile, guardando le sue immagini, pensare che appartenessero a una cinquantaseienne; difficile non attribuire a quel viso perfetto un carattere molto attento all’apparenza e all’apprezzamento del prossimo.
Non a caso, l’aspetto esteriore di Alessandra aveva da subito indotto molti a tranciare giudizi, uno più superficiale dell’altro, sulla sua persona. Plausibili? Non plausibili? Non è importante: si tratta del cicaleccio che da sempre si fa sui fatti di cronaca, specie quella nera, spesso con la dose di cinismo necessaria a dimenticare che dietro alle chiacchiere c’è una vita spezzata con violenza. Donatello si è soltanto unito al coro dicendo la sua opinione, una delle tante, né più né meno stupida di altre che si sono susseguite sulla vicenda («pena di morte per l’assassino», «la vittima aveva denunciato, il delitto poteva essere evitato», e così via). Quella sua opinione, non dichiarata da un posto di responsabilità pubblica o a reti nazionali unificate, ma espressa in un commento tra i tanti su un social network tra i tanti, è stata subito commentata con rabbia, furia e isteria, cui Donatello ha pensato di rispondere nuovamente esprimendo la propria opinione: «Comportatevi più sobriamente come le nostre nonne e gran parte delle aggressioni saranno evitate». Condivisibile? Non condivisibile? Non è importante, è la sua opinione, come tale è legittimamente espressa e può essere altrettanto legittimamente discussa, criticata, appoggiata. Così almeno dovrebbe accadere nella normalità delle cose.
Il “mondo nuovo” e il “mondo normale”.
Non è però quello che accade: qualche zelante giustiziere sociale screensciotta i suoi commenti e li invia ai suoi capi, che di conseguenza hanno valutato opportuno sospenderlo dal lavoro. Non è ovviamente servito che Donatello abbia poi cancellato il suo commento dichiarando di essere stato frainteso, il fatto resta. E il fatto è che un libero cittadino di un (presunto) paese libero ha espresso liberamente una propria opinione su una piattaforma elettronica del tutto informale e a seguito di ciò ha perso il proprio lavoro e la propria fonte di sostentamento. Non è importante cosa abbia detto, o meglio: sul merito della sua opinione si potrebbe discutere per ore, ma non è quello che ci interessa qui. Ci interessa che non ha inneggiato all’omicidio, non ha giustificato l’atto criminale, non ha vilipeso la vittima: seppure con modalità superficiali (ma si trattava di Facebook in fondo, non di un trattato di sociologia o criminologia), ha espresso la sua opinione sulle origini del sentimento che ha portato l’assassino a commettere un delitto. Si fosse trattato di una rapina finita con la morte violenta del rapinato, avrebbe potuto scrivere: «evidentemente il rapinatore voleva il denaro ad ogni costo». La portata dell’opinione espressa sarebbe stata la stessa, orientata a individuare le cause della pulsione criminale, non certo a giustificarle.
Eppure… eppure Donatello ora è stato sanzionato dai suoi capi ed è senza lavoro. Un fatto di una gravità inaudita e senza precedenti. In un paese che si spaccia per una delle più avanzate democrazie del mondo, si rischia di perdere il lavoro per un pour-parler, per un’opinione sgangherata buttata lì su un social network. Ripetiamo: è un fatto di una gravità inaudita. E vale la pena chiedersi il motivo di una situazione che consente derive del genere. La risposta è semplice: a monte di tutto c’è l’affermazione nelle radici più profonde del vissuto sociale di una chiave di lettura della realtà prettamente femminista. Una chiave di lettura per cui le donne vittime della violenza maschile sono più vittime di ogni altra, tanto da assumere su di sé un carattere sacrale, da icona o da reliquia, in una deriva psicotico-settaria tipica delle religioni estremistiche. Sebbene non ci siano leggi in merito nel nostro ordinamento, è diventato un reato informale mettere in qualunque misura in discussione la purezza assoluta, quasi mariana, di una donna vittima di un uomo. Farlo può costare la reputazione o il posto di lavoro. Questo accade in quel “mondo nuovo”, come lo chiamerebbe Aldous Huxley, dove la realtà è invertita e sovvertita a norma di un’ideologia che predomina, nonostante i dati di fatto ne smentiscano ogni postulato. In un mondo normale il commento di Donatello sarebbe stato al massimo ferocemente criticato o sbeffeggiato da alcuni, sostenuto da altri e finita lì. Quanto all’oggi: in un mondo normale un magistrato avrebbe già inviato la Guardia di Finanza e gli ispettori del lavoro in forze per prendere per le palle i capi di Donatello, sanzionarli e costringerli a reintegrare immediatamente il lavoratore. Invece niente di tutto ciò accade, in questo paese che abbiamo ancora il coraggio di definire “libero”, magari confrontandolo con altri.
Reintegrare Donatello Alberti subito.
Ma, viene da chiedersi, esisterà mai più un mondo normale? È una domanda oziosa, perché in realtà quel mondo normale continua ad esistere. L’unica differenza è che si tratta di un mondo “riservato” a una categoria specifica di persone e di fatti di cronaca. Si prenda questo caso, accaduto pochi giorni dopo l’assassinio di Alessandra Matteuzzi: «Rovigo, 72enne fatto a pezzi e gettato nell’Adigetto: arrestata la moglie. La donna ha confessato: “L’ho fatto a pezzi con l’accetta, in bagno”». Un delitto efferato, insomma, tanto quanto quello della povera Alessandra Matteuzzi. Pochi media ne hanno parlato e nei social la notizia è girata poco. Ci sta: si tratta di una tragedia qualunque tra quelle che capitano periodicamente. La ragione della scarsa diffusione però è un’altra: essendo la vittima uomo, non merita il battage che si è invece fatto per il caso Matteuzzi che, essendo la vittima una donna, non è più una tragedia qualunque, ma qualcosa di molto più rilevante. Non solo: laddove si è parlato del delitto di Rovigo, i commenti (qualche esempio nella foto qui sopra) sono stati più o meno gli stessi, da parte soprattutto di donne, ma anche di uomini: «chissà lui cosa aveva fatto per portarla a tanto», «finalmente una donna che reagisce», «uno di meno, poca perdita», «brava, ha fatto bene», e simili. Non solo giustificazioni per il delitto, ma addirittura esultanza. Però nessuno ha fatto screenshot, nessuno ha inviato niente a nessuno, nessuno è stato sanzionato o ha perso il lavoro per queste opinioni liberamente espresse, plausibili e legittime o meno che siano. Il che prova che esistono di fatto due mondi e un relativo doppio standard sempre più polarizzati e radicalizzati: uno appartiene a un mondo normale, dove le cose hanno le giuste proporzioni e che è appannaggio di un’aristocrazia legittimata a dire e fare tutto senza timori di ricadute; l’altro è il “mondo nuovo” antiutopico, appannaggio dei nuovi plebei, colpevoli di tutto a prescindere, e a cui ogni sanzione può e deve essere applicata con il massimo zelo.
A noi questo stato di cose non piace. Giudichiamo la sospensione di Donatello Alberti un fatto gravissimo, totalmente inaccettabile, oltre che illegale. Per questo abbiamo inviato il presente articolo, con richiesta di immediato reintegro del lavoratore Donatello Alberti, all’email di contatto della Croce Bianca Emilia Romagna. Nel caso voleste associarvi alla richiesta, l’indirizzo email è questo: info@crocebiancaer.it. Se non avremo riscontro in tempi certi del suo reintegro, faremo immediatamente un esposto all’ispettorato del lavoro competente.