Si è molto discusso, durante la pandemia, dell’uso disinvolto ed eccessivo da parte dell’ex premier Giuseppe Conte dello strumento del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Un utilizzo così largo e ampiamente inteso da aver fatto parlare molti di abuso. Il caso che stiamo per analizzare conferma che a tutti gli effetti proprio di abuso si tratta. Qualche giorno fa è stato infatti pubblicato in Gazzetta Ufficiale il DPCM 17 dicembre 2020, uno degli ultimi del Governo Conte, concepito «al fine di contenere i gravi effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19», come dice il suo articolo 105 bis, intitolato “Fondo per il reddito di libertà per le donne vittime di violenza”. Nel concreto l’articolo stanzia tre milioni di euro, cui le Regioni potranno aggiungere ulteriori fondi, per sostenere «le donne in condizione di maggiore vulnerabilità, nonché di favorire, attraverso l’indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà».
Sarà l’INPS a erogare il contributo di 400 euro mensili, della durata massima di un anno e cumulabile anche ad altre prestazioni riconosciute dall’INPS o da altre amministrazioni, per esempio il “reddito di cittadinanza” o l’eventuale mantenimento da parte dell’ex marito. Per ottenere il beneficio, le donne interessate dovranno presentare domanda su modulistica preparata dall’INPS e dimostrare di avere i requisiti richiesti, ovvero versare in uno stato di “particolare vulnerabilità e povertà” ed essere inserite in un percorso di “fuoriuscita dalla violenza” attivato da centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali degli Enti Locali. A vigilare sul rispetto dei requisiti, prima e durante l’erogazione, sarà proprio la sezione ispettiva dell’INPS, ed è prevista la revoca del beneficio nel caso vengano rilevati “motivi ostativi”. Si può pensare ciò che si vuole degli strumenti assistenziali messi a disposizione dello Stato per le persone in difficoltà, ma si deve genericamente ammettere che essi, se indirizzati a categorie davvero bisognose e se non assumono le fattezze di una prebenda elettorale, possono avere la loro utilità. Ma non è questo il caso. Anzi il provvedimento del “Reddito di libertà” grida vendetta sotto alcuni aspetti cruciali.
Tutto è messo in mano ai centri antiviolenza.
Anzitutto è discriminatorio, fa letteralmente a pezzi l’Articolo 3 della Costituzione. Esso è infatti indirizzato soltanto alle donne vittime di violenza e in stato di indigenza. E gli uomini nelle stesse condizioni? Le risposte più comuni sono le seguenti: 1) non esistono uomini in quelle condizioni; 2) se esistono, sono pochissimi. Analizzando bene queste risposte si apre un mondo. Anzitutto perché, oltre a svelare uno stereotipo radicato e fortemente alimentato, sono il segnale di un’ulteriore discriminazione antimaschile a monte. La replica alla prima asserzione è infatti quella più logica: non è vero, ce ne sono eccome di uomini vittime di violenza e in stato di indigenza. Al che l’interlocutore ci chiederebbe di produrre dati che lo dimostrino e lì ci schianteremmo contro una realtà oggettiva: al di fuori del nostro conteggio informale sui casi apparsi nei media, non esistono rilevazioni ufficiali relative alla violenza subita dagli uomini, di contro a un profluvio di statistiche e raccolte dati, alcune ufficiali altre campate in aria, riguardanti la violenza contro le donne. L’esito è che si discriminano a valle gli uomini vittime di violenza e in stato d’indigenza sul “Reddito di libertà” perché li si discrimina già a monte nella rilevazione del loro status. Risibile è poi la seconda risposta sull’esiguità eventuale del loro numero: secondo la stessa logica non si dovrebbero più assistere i disabili, dato che sono meno dei normodotati, oppure gli immigrati, dato che sono meno degli autoctoni e così via. Senza contare che il puro e semplice principio costituzionale stabilisce la parità di trattamento all’interno delle leggi a prescindere da tutto. Quand’anche non ci fossero uomini vittime di violenza e in stato di indigenza, comunque, dice la nostra Carta fondamentale, il beneficio dovrebbe essere indirizzato indiscriminatamente ai due generi.
Si tratta insomma, già nel suo impianto generale, di una delle sempre più frequenti norme che acquisiscono il presupposto femminista, falso e discriminatorio, per cui le vittime sono sempre e solo donne e i carnefici sempre e solo uomini. Un dogma che riesce anche a superare i vincoli costituzionali, oltre a quelli del buon senso e della giustizia. Non è la prima volta, è bene ricordarlo: queste disposizioni si associano, ad esempio, all’art.24 del Dlgs. 80 del 15/06/2015, che riconosce numerosi benefici soltanto alle donne che dichiarino di aver subito molestie sul lavoro (eventuali uomini vittime di molestia si attaccano al tram). Entrambe le leggi hanno poi una gravissima anomalia in comune. Chi, infatti, è chiamato a certificare lo status di “vittima di violenza”, o nell’altro caso di molestie, delle beneficiarie? Logica e Stato di Diritto suggerirebbero che la candidata si presentasse allo sportello INPS con una copia della sentenza di condanna della persona da lei denunciata di averle fatto violenza, molestie o altro. Si tratterebbe di un documento che più ufficiale non si potrebbe pensare, sarebbe l’attestazione da parte di un organo dello Stato di un accertamento approfondito e a norma di legge dello status di vittima della candidata al “Reddito di libertà”. Così non è: ad asseverare che si tratta di vittima di violenza saranno i centri antiviolenza, ovvero quei soggetti informalissimi, quelle associazioni opache e in perenne conflitto d’interesse di cui abbiamo parlato venerdì scorso.
Spazzare via questa mostruosità discriminatoria.
Questi soggetti fuori da ogni controllo acquisiscono d’ora in avanti un potere ulteriore rispetto a quelli già posseduti: avranno facoltà infatti di introdurre qualche loro assistita al “reddito di libertà”, anche se lo status di vittima non è stato ancora accertato, anche magari chiedendo in cambio una percentuale sul beneficio mensile o altri tipi di benefit, ad esempio la tessera di un partito o il voto per qualche candidata amica. Siamo esageratamente sospettosi? Non possiamo farne a meno nel momento in cui lo Stato affida funzioni così importanti e un tale circuito di denaro a entità totalmente esentate da ogni forma di verifica e controllo. Funzioni che andrebbero affidate solo ed esclusivamente a enti o organismi pubblici, per loro natura privi di conflitti d’interesse e meno condizionabili da pressioni e influenze politiche. Perché questo non accada l’abbiamo spiegato già venerdì: il sistema dei centri antiviolenza e tutto ciò che ad esso gira attorno è un vero e proprio cancro maligno che aggredisce la linfa della società allo scopo di ottenere il binomio classico, ossia soldi e potere. Il tutto con l’appoggio di una propaganda martellante, pervasiva ed estremamente efficace, tale da far apparire quanto previsto dal DPCM di cui trattiamo del tutto normale e accettabile.
Invece accettabile non è, sotto nessun profilo. Disegna agli occhi di chi vuole vedere l’esistenza di uno Stato elitario orientato a privilegiare alcuni, dunque apertamente discriminatorio verso altri. Qui ci concentriamo sulla sfera maschile, ma la discriminazione è ampliabile ad ogni altra possibile categoria. Si vuole davvero pensare che in uno stato di indigenza e vittimizzazione non si possano trovare disabili, omosessuali, anziani, immigrati, malati cronici, cittadini di specifiche aree depresse, persone in rovina a causa del covid e magari sull’orlo del suicidio? Perché nel lunghissimo elenco di categorie di persone che potrebbero beneficiare di un “reddito di libertà” si prediligono soltanto le donne? Il motivo è meramente politico e ideologico: da un lato confermare il postulato per cui solo le donne sono vittime di una persecuzione ordita dagli uomini, tutti per loro natura violenti, dall’altro conferire maggior potere e più possibilità di business a quella che noi chiamiamo “industria dell’antiviolenza”. Ma non è tutto: con questa nuova disposizione, i centri antiviolenza risulteranno ancora più legittimati nel fornire le loro “cifre” sulla violenza in Italia. Già lo fanno in parte con i dati farlocchi del 1522, che spaccia per donne vittime il numero di chiamate ricevute; da adesso in poi, facendosi accertatori nei termini del beneficio INPS, si sentiranno ancora più legittimati. Invece di utilizzare il conteggio del Ministero della Giustizia relativo alle sentenze di colpevolezza per violenza e il relativo numero di vittime, ci si affiderà ai conteggi interessati dei centri antiviolenza, in un circuito malefico che si autoalimenta, tagliando fuori chiunque possa avere bisogno di un sostegno ma non abbia le caratteristiche per essere ricompreso nell’ambito del femminismo d’affari. Una soluzione potrebbe essere che uno qualunque dei tanti esclusi dal “reddito di libertà” denunciasse l’incostituzionalità di questa mostruosità discriminatoria, per vederla spazzata via. Ma ci sarà qualcuno coraggioso abbastanza da affrontare la facile e conseguente accusa di misoginia e maschilismo?