«Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera» (Galati 4, 30), così scrisse Paolo di Tarso e così dice la Scrittura. Il motivo è ovvio, bisogna proteggere l’eredità del figlio della donna libera. Per questo motivo Sara ordina ad Abramo di scacciare nel deserto la schiava Agar con il figliolo, «perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco». E Abramo, capo patriarca, «molto dispiaciuto», ubbidì (Gn 21, 10-11, 14). Ismaele, figlio primogenito di Abramo e figlio di Agar, smarrito per il deserto assieme alla madre, sarà il progenitore del popolo arabo. Così, con profondo dispiacere, trattò Abramo il suo primogenito. Il passaggio biblico non solo descrive una gerarchia capovolta rispetto a quella descritta nella narrazione storica femminista, dove l’uomo rassegnato, malgrado la sua posizione di capoclan, contro il suo volere, ubbidisce la volontà della moglie, il passaggio determina inoltre un potere esclusivo delle madri sui figli, dove il diritto paterno è completamente inesistente. Abramo non esercita alcun potere sul futuro del suo primogenito. Da questo punto di vista la società ebrea fu matrilineare, e allo stesso modo si comportarono le culture cristiane successive. I padri, nobili o proprietari terrieri, nel Medioevo o nell’America schiavista, in linea di massima non si prendevano cura dei propri figli, nati da serve o da schiave, che seguivano le loro madri e la loro condizione di servitù o di schiavitù, in modo così da proteggere gli interessi dei figli nati dalle “donne libere”, in altre parole, in modo da proteggere la volontà delle “donne libere”. Questo modo di svuotare la paternità, o, in altre parole, di tutelare il diritto delle madri sui figli, è stato comune non solo nei popoli ebraico e cristiano.
La società vichinga, pagana, condivide lo stesso desiderio di proteggere gli interessi dei figli nati dalle “donne libere”. Nei paesi scandinavi gli schiavi erano denominati “thrall”. Per quanto riguarda le nascite, i vichinghi erano una società matrilineare. Se una donna thrall aveva un figlio con un uomo libero il figlio continuava ad essere un thrall. «Il figlio di una schiava era sempre uno schiavo, qualunque fosse il rango di suo padre». Quando invece un uomo thrall aveva un figlio con una donna libera, allora il figlio era libero. «La stirpe di uno schiavo era di discendenza materna […]; cioè, i neonati ereditavano lo status della madre. Se era una schiava, in linea di principio anche i bambini lo erano». Lo status della madre concedeva al figlio lo status di schiavo o libero. Lo status o la volontà del padre non importavano a nessuno. Come è stato già anticipato, di solito nelle culture schiaviste i figli di donne schiave e uomini liberi diventano schiavi. Un modo di preservare i diritti di eredità dei figli nati da donne libere, cioè un modo di tutelare le spose. Gli interessi delle donne libere e quelli delle donne schiave, serve, di classi inferiori, sono sempre stati per questo motivo in contrasto. Uno dei motivi per cui i guerrieri vichinghi facevano delle razzie era quello di trovare degli schiavi e delle schiave per liberare le donne libere (spose, madri, sorelle) dalle faccende domestiche. Evidentemente non era per loro conveniente che i figli di queste donne schiave, magari messe incinte, potessero ereditare e diventare successivamente i padroni. Le norme quindi favorivano le donne libere e mantenevano lo status quo.
Le tesi di Engels.
La legge ebraica riconosceva la condizione dell’ebreo a qualsiasi bambino nato da una donna ebrea, anche se bastardo o di rango inferiore. Stessa situazione avveniva a Roma, nei paesi musulmani e nell’Antico Egitto, argomento già trattato da me in un altro intervento, che serve a integrare questo. Molte cose riescono a spiegarsi in maniera diversa se teniamo presente questa prospettiva. Ciò spiegherebbe perché si punivano, spesso con la morte, gli uomini di classi, razze o status inferiori che avevano delle relazioni con donne ritenute libere o superiori, ma ciò non succedeva al contrario. Le donne di classi, razze o status inferiori di solito non rischiavano. I figli di queste donne non avevano legalmente alcun diritto, malgrado lo status del padre, dunque non importunavano nessuno. È sbagliato quindi voler addebitare in esclusiva al maschilismo tossico, al patriarcato, ecc., come fa la narrazione storica femminista, la segregazione razziale e le conseguenze violente di questa segregazione, i linciaggi, l’emarginazione sociale, gli omicidi, quando il motivo principale risiede, molto probabilmente, nel tentativo di proteggere gli interessi dei figli delle donne di classi superiori e libere, cioè di assecondare la volontà di queste donne. Si potrebbe addirittura ipotizzare che la causa principale dell’esistenza della segregazione e della schiavitù storica sarebbe da addebitare alla volontà della società di proteggere queste donne e i loro figli, di accontentare la loro volontà, innalzate e divinizzate quasi al rango di vergini vestali.
Oggigiorno, nei tribunali del divorzio, la situazione non è molto cambiata. Il padre di solito conta poco o nulla, tranne quando si tratta di fare da bancomat. Con la scusa della protezione del minore si protegge solo la madre. Se lungo tutta la Storia gli uomini non sono in genere riusciti a tutelare i loro figli e il proprio diritto di paternità, dove risiede quindi tutto il potere patriarcale, nell’uso del telecomando? L’importanza del diritto sui figli come elemento fondamentale per poter valutare la posizione di predominio storico di un sesso sull’altro, non l’afferma il sottoscritto, ma è la stessa dottrina femminista che l’attesta. Nel 1884 Friedrich Engels solleva per primo in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, un libro descritto da Lenin come «una delle opere fondamentali del socialismo moderno», il pensiero del predominio maschile nato dalla sconfitta del diritto materno. La tesi di Engels non solo fu promossa dal movimento comunista, ma ampiamente accettata e condivisa da femministe storiche quali Kate Millett, Juliet Mitchell, Gloria Steinem oppure Phyllis Chesler. Engels scrive: «Secondo la divisione del lavoro nella famiglia allora in vigore, toccava all’uomo procacciare gli alimenti, come anche i mezzi di lavoro a ciò necessari, e quindi anche la proprietà di questi ultimi. L’uomo poi, in caso di separazione, se li portava con sé, come la donna conservava le sue suppellettili domestiche.
Chi lavora per chi?
Secondo l’uso della società d’allora, dunque, l’uomo era anche proprietario delle nuove fonti d’alimentazione, del bestiame e, più tardi, dei nuovi strumenti di lavoro: gli schiavi. […] A misura che le ricchezze aumentavano, da un lato, esse davano all’uomo nella famiglia una posizione più importante che alla donna e, d’altro lato, creavano in lui lo stimolo ad utilizzare questa posizione più importante, per rovesciare, a favore dei propri figli, la vecchia successione. Ma ciò era impossibile finché vigeva la discendenza per diritto materno. Questo diritto doveva dunque essere rovesciato, e lo fu. […] La caduta del diritto materno fu la sconfitta storico-mondiale del sesso femminile. L’uomo afferrò il timone anche nella casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e divenne un semplice strumento di riproduzione. Questa degradata condizione della donna, che appare evidente soprattutto fra i Greci dei tempi eroici e più ancora dei tempi classici, venne gradatamente inorpellata e dissimulata, e qua e là ha assunto anche forme più miti; ma non fu mai in alcun modo abolita. […] Marx aggiunge: “La famiglia moderna contiene in germe non solo la schiavitù (servitus), ma ben anche il servaggio, poiché essa in origine si connette con dei servizi agricoli. Essa compendia in miniatura tutti gli antagonismi che più tardi si sviluppano ampiamente nella società e nel suo Stato”. Siffatta forma di famiglia segna il passaggio dalla famiglia sindiasmica alla monogamia. Per garantire la fedeltà della moglie, cioè la paternità dei figli, la donna è consegnata incondizionatamente al potere dell’uomo: se egli la uccide, non esercita che il proprio diritto». In conclusione, secondo Engels gli uomini si sono impossessati del diritto paterno sovrastando le donne per poter garantire ai figli la trasmissione certa dell’eredità, tesi condivisa dalle femministe storiche che conferma il predominio storico patriarcale sulle donne. Peccato che nella realtà storica sia capitato molto più spesso il contrario, i figli appartenevano alle donne tra gli ebrei o tra i cristiani, gli islamici o i vichinghi, i romani o gli egiziani, ciò che proverebbe, seguendo la stessa logica, il predominio storico delle donne sugli uomini.
Concludo con un’ultima considerazione che riguarda la premessa dalla quale parte tutta la riflessione di Engels. Engels afferma che «secondo la divisione del lavoro nella famiglia in vigore, toccava all’uomo procacciare gli alimenti, come anche i mezzi di lavoro a ciò necessari…». Da questa premessa come punto di partenza si sviluppano una serie di conseguenze a cascata che concludono nella conquista del diritto paterno, la sottomissione delle donne e il trionfo del Patriarcato. Engels non si preoccupa di spiegare da dove nasce e per quale motivo esiste questa «divisione del lavoro», ciò che l’ideologia femminista ha denominato eufemisticamente “ruoli di genere”. Lo presenta come un dato di fatto, qualcosa di scontato connaturato alla stessa esistenza. Evidentemente non può esistere per volontà di un ordine divino, in quanto l’esistenza del divino è negata dal movimento comunista, Dio escluso in partenza. Misteriosamente Engels, che si mostra sempre molto preoccupato del motivo per il quale tocca agli operai lavorare perché i padroni possano vivere agiatamente, non si chiede per quale motivo tocca all’uomo procacciare gli alimenti e lavorare a favore delle donne. Quello che risulta un aspetto fondamentale per la dottrina marxista, chi lavora per chi, viene semplicemente menzionato e sorvolato quando si tratta di parlare della relazione tra uomini e donne. Lui, che è un sociologo e teorico dell’economia, non approfondisce sul significato che implica l’espressione «divisione del lavoro nella famiglia». La «divisione del lavoro» implica l’aumento della produzione e la riduzione del costo per produrre, cioè aumenta l’efficienza in termini di tempo e costi, incrementa la produttività. E questo non viene fissato a tavolino (dagli uomini) o per volontà divina, ma si tratta di un processo naturale dove ogni membro si adegua al suo ruolo più produttivo e proficuo per tutti. E se questa è la ragione, e non un ipotetico complotto patriarcale, allora è molto probabile che le conseguenze a cascata che ne derivano siano a loro volta le conseguenze più produttive e proficue per tutti. E per tutte.