Mi chiamo Angelo, sono un padre separato e la mia storia è simile a tante altre storie di padri disperati che si sono visti distruggere la propria famiglia davanti agli occhi. Ma oggi non voglio parlarvi di questo. Voglio dirvi qualcosa di diverso. Voglio raccontarvi cosa accade dall’altra parte. Voglio mostrarvi quello che succede nella mente di una donna. No, non sono un veggente. Nemmeno un indovino. Semplicemente, mi sono frequentato con una donna separata, che si era lasciata con quello che diceva essere un ex marito violento. E che, nella sua testa, meritava di pagare. Non posso sapere se il suo ex marito fosse davvero un uomo violento. Ma le voglio credere. Voglio pensare che il suo racconto fosse vero: che quella volta, esasperato, lui avesse davvero perso la pazienza e le avesse davvero dato un ceffone. Voglio crederle. Quando mi raccontava che, durante le litigate, se lei si arrabbiava lui le diceva cose irripetibili. Voglio pensare che fosse tutto vero. Che quando lei usciva senza dirgli nulla e tornava a casa quando le pareva, lui facesse scenate di gelosia. Un vero mostro, dai suoi racconti. E in tutto questo io ascoltavo, cercando di capirla. E cercando di capire se quel mostro fosse davvero così mostruoso. Ma una cosa non riusciva a dirla. Ci provava, lo voleva far presagire, ma sapeva che sarebbe stata una bugia: il fatto che fosse un cattivo padre e non volesse bene a suo figlio. Quello no. Le era proprio difficile ammetterlo, perché nel quadro del mostro era un tratto che stonava: purtroppo era un padre che amava suo figlio. E questo, lei, lo sapeva molto bene.
Il suo matrimonio non aveva funzionato. Lei aveva lasciato tutto per lui. Era stata la sua prima e si era sposata vergine, credendo a un sogno fatto di principi azzurri e bei castelli. E pian piano la realtà ha fatto il resto, sciogliendo la favola come neve al sole. Piantando cunei nelle piccole crepe del rapporto. Gettando il seme dell’incomprensione sulle piccole gelosie. Trasformando in coltelli le parole dette nei litigi. Una frase, detta da lei un giorno di sfuggita, mi ha colpito come una frustata. Come quando vedi una brutta immagine di sfuggita, o senti un insulto che giureresti di non aver udito. Ma la realtà è che preferisci pensare di esserti sbagliato. E continuare ad andare avanti: «Deve pagare per questo». Poche parole, ma affilate come rasoi. E quel pagare aveva un caro prezzo. Mi raccontava senza celare il compiacimento di come faceva piccoli dispetti ogni volta che poteva. Come quando prometteva di portargli il figlio e farlo stare col padre fuori dai giorni previsti, e poi all’ultimo momento cancellava tutto. Facendolo aspettare magari per ore, obbligandolo a prendere inutili permessi sul lavoro. O come quando gli portava il bambino in ritardo, erodendo il poco tempo assieme al padre, salvo poi pretendere una puntualità maniacale nella restituzione, minacciando altrimenti di chiamare le forze dell’ordine. E con disinvoltura ammetteva di aver ricevuto diversi esposti dall’avvocato del padre per questo, ma sapeva bene che erano carta straccia, perché comunque era lui il violento, era lui che le aveva dato un ceffone. «Deve pagare per questo».
«Deve pagare per questo».
E mi raccontava di come pianificava per portargli via la casa, di quali strategie poteva mettere in atto con l’avvocato per avere più soldi. «Ah, davvero alla tua ex dai così tanti soldi??? – mi chiedeva – cavolo, dovevo essere più furba… a me il mio ex dà una miseria…». Mi confessava. «Pensi che dovrei mettermi a piangere davanti al giudice in tribunale?», mi domandava ancora. E io le dicevo che la mia ex lo aveva fatto e, sì: aveva sortito il suo effetto, se l’obiettivo era quello di avere più soldi. «Allora la prossima volta bisogna che lo faccia anch’io». E io dentro di me che pensavo che certo, era giusto così, in fondo era davvero un mostro, le aveva dato un ceffone. Ma perché qualcosa davvero non tornava? Perché nel profondo, anche io sentivo che c’era qualcosa di tremendamente ingiusto in tutto questo? «Perché non lasci un po’ di più il piccolo con suo padre? Ok, è stato un pessimo marito, ma non mi sembra che sia un cattivo padre», le chiedevo. «Scherzi? Se lo facessi, stronzo com’è, il mio ex chiederebbe subito una riduzione dell’assegno di mantenimento!», era la sua chiara, lucida, risposta. «Ok, ma non pensi che, a prescindere dai soldi, a tuo figlio faccia bene passare un po’ più di tempo con il papà?». «Con quello stronzo? Tanto poi lo lascia con quella troia della sua nuova compagna! Ma dobbiamo parlare proprio di questo?». E capivo che era meglio non continuare. Ma una cosa la intuivo bene. Lei lo odiava. E odiava la sua nuova compagna. Lo odiava per i sogni infranti. Lo odiava per essersi rifatto una vita senza di lei. «Deve pagare per questo».
E in quelle quattro parole leggevo tutto il rancore di una donna infelice e sola che non accettava che il suo ex marito potesse essere felice. E che, soprattutto, potesse essere amato. «Era un violento, guarda le foto di quando mi ha tirato quel ceffone. Guarda che livido. Pensa che in tribunale il suo avvocato si voleva inventare che me lo fossi fatto da sola». Già era un violento. In effetti ti ha dato un ceffone. Ma allora perché picchi tuo figlio quando è troppo lento a vestirsi e rischia di perdere lo scuolabus alla mattina? Cosa differenzia davvero i tuoi ceffoni da quello di quel mostro di tuo marito? Quindi gli schiaffi dati a un bambino di 6 anni sono educazione, ma quelli dati a una donna sono violenza? Ti ho visto lasciare il segno della mano in faccia a tuo figlio per la sua educazione, e mandarlo a scuola così. Perché “così impara”. Ti ho visto picchiarlo davanti a tutti perché si era fatto la cacca addosso mentre giocava, umiliandolo doppiamente. Ma era per la sua educazione, giustamente. Oppure non è forse che diventiamo tutti violenti quando sappiamo di potercelo permettere? Non è forse che alziamo le mani semplicemente quando l’altro è più debole e sappiamo che non potrà rispondere? Siamo tutti violenti, quando sappiamo di poterlo fare e di essere impuniti. A prescindere dal sesso, dalla razza, dall’età. «Deve pagare per questo».
Le persone non sono mostri.
Lo tormentava con mail in cui diceva che aveva persone che potevano testimoniare che era un violento. Che avrebbe fatto meglio a limitarsi a dare i soldi e sparire dalla sua vita. Che gli avrebbe portato via tutto come è giusto che fosse per i violenti come lui. Le dissi di non tirare troppo la corda. Di non esagerare. Di lasciarlo vivere, perché non aveva alcun senso tormentarlo per il solo gusto di farlo. Se era davvero violento, perché continuava a stuzzicarlo senza motivo? Valeva la pena rischiare così per la sola soddisfazione di sentirsi meno frustrata? Glielo dissi in modo molto chiaro: se esageri, se lo metti troppo sotto pressione, arriverà il giorno storto in cui lui realmente sbroccherà, perderà la testa e forse ti investirà con l’auto, come un demonio divorato dalla rabbia e dalla frustrazione. E la sola cosa che avrai ottenuto sarà un posto al cimitero per te, uno in galera per lui e la vita distrutta per tuo figlio. Grazie a dio, sembrò aver capito.
Un giorno il piccolo ebbe un problema alla gola. Lei non era nelle possibilità di poter comprare le medicine, a causa di impegni con il lavoro. «Manda una mail al padre, fidati di me», le dissi. «Scrivigli in modo molto semplice e diretto, dicendo semplicemente che il bimbo ha bisogno di questo farmaco e che avresti bisogno che per favore lo comprasse lui perché tu non riesci». Mi guardò perplessa, ma fece come le consigliai. Dopo pochi minuti, il padre aveva comprato le medicine e le aveva lasciate in una busta davanti a casa. Lei mi guardò come se avesse appena visto un unicorno. Io la guardai come se fosse successo quello che era successo: la cosa più naturale del mondo. La verità è che spesso ci facciamo la guerra nell’inutile speranza di lenire un disagio, quando basterebbe solo abbassare le armi e chiedersi in due “cosa è meglio per nostro figlio?” La verità è che le persone non sono mostri. Diventano mostri quando li trattiamo come tali.