Sono sempre di più le voci gender critical a uscire allo scoperto, dopo l’eco mondiale seguita al geniale What is a woman? di Matt Walsh, uscito lo scorso giugno per DailyWire. E una fetta importante di questo movimento sta nella consapevolezza sul fenomeno dei detransitioners: persone che intraprendono un percorso di transizione (per cambiare sesso), farmacologico o anche chirurgico, ma, dopo alcuni anni, si rendono conto di aver fatto un errore. Un errore che si porteranno dietro per tutta la vita: laddove infatti alcune delle modifiche “estetiche” sono in qualche modo reversibili (sebbene con un grande dispendio economico), altre, tra cui quelle comportate dall’uso dei farmaci (durante i primi anni gli ormoni che bloccano la pubertà, e poi gli ormoni cross-sex), sono o diventano irreversibili: dalla perdita della fertilità e del piacere sessuale, al mutamento della voce, all’integrità della struttura ossea (nonostante molte autorevoli associazioni e istituzioni mediche continuino a ripetere il contrario, tra cui dalle nostre parti la recente, sorprendente, dichiarazione da parte della Società Italiana di Pediatria, qui discussa).
Quanto è grande questo fenomeno e perché se ne parla solo ora? Bisogna ricordare che negli ultimi vent’anni, come abbiamo già documentato, si è assistito a un vero e proprio boom dell’insorgenza di diagnosi legate alla disforia di genere, con una prevalenza però tra i soggetti adolescenti e di sesso femminile; laddove invece, nel secolo scorso, il fenomeno del gender identity disorder (“disturbo di identità di genere” come era ancora chiamato fino al 2012) era estremamente raro, e diffuso quasi esclusivamente tra soggetti maschili adulti. Sembra quindi trattarsi di due fenomeni diversi tra loro, e alcuni studiosi, tra cui Lisa Littman – colei che ha coniato l’espressione nosologica rapid-onset gender dysphoria (“disforia di genere a insorgenza precoce”) – e Shannon “Boschy” Douglas, stanno sottoponendo all’indagine empirica e statistica la fondata ipotesi che l’esplosione di adolescenti disforiche dei tempi recenti sia assimilabile a una dinamica da contagio di massa, legata ai social e alla propaganda che si fa – dai cartoni animati alle scuole – della teoria gender. Se questa ipotesi fosse corretta, potremmo prevedere un alto numero di pentimenti tra coloro che iniziano il percorso molto presto, man mano che il soggetto cresce e matura: e quello che osserviamo è proprio questo.
Una voluta mancanza di dati.
Come abbiamo già documentato altrove, fortunatamente non (ancora) in Italia ma in altre parti d’Europa e negli USA, la transizione sociale può essere avviata fin dalla più tenera età, la somministrazione di ormoni bloccanti della pubertà fin dagli 8 anni, e interventi chirurgici sono stati effettuati a ragazzine fin dai 13 anni. Mentre le linee-guida della lobby della medicina transgender, il WPATH, nell’ultima versione pubblicata hanno completamente eliminato la soglia di età minima per la prescrizione di questi trattamenti, sempre più voci (con le quali concordiamo) suggeriscono che in età così precoce un bambino non può avere contezza della profondità e irreversibilità delle conseguenze dei trattamenti che affronterà, e non può offrire in piena consapevolezza un consenso informato agli stessi. Ebbene: in coloro che non iniziano un percorso di transizione il tasso di recessione è appunto altissimo, dall’80% al 90%. Tra coloro che iniziano il percorso di transizione e poi lo abbandonano, in corso d’opera (i desisters) o dopo averlo completato, i numeri sono più difficili da quantificare: non ci sono molti dati ufficiali disponibili, sia perché non vengono impiegati fondi per studi del genere, sia perché chi cambia idea di solito taglia ogni rapporto con i dottori e le cliniche con cui l’aveva intrapreso (e quindi nei follow-ups questi dati non emergono), e anche con la “comunità” che prima lo accoglieva e supportava nella transizione.
I promotori della teoria gender dicono che si tratta di un mito, di casi sporadici, isolati, praticamente quasi zero e viene fatta una pubblicità aggressiva a studi che lo dimostrerebbero. Un noto esempio recente è questo studio, che segue un campione di 317 giovani transgender per 5 anni e trova un tasso di pentimento del 2,5%, concludendo che si tratta di un fenomeno estremamente raro. Questa conclusione ignora completamente il fatto che dall’evidenza disponibile risulta che il pentimento si manifesta più tardi, mediamente otto-dieci anni dopo gli interventi gender-affirming. Spesso i gender-pro citano studi che presentano problemi ormai tipici: i dati provengono da studi molto brevi, spesso di 1 o 2 anni, e che presentano perdite di ampie percentuali del campione originale nel follow-up; oppure da sondaggi o indagini effettuate tra le persone che si identificano come trans, mentre il detransitioner tipicamente non si identifica più come tale e ha chiuso (o meglio si è visto chiudere) i ponti con la “comunità” trans.
Gli abusi sui bambini.
Sono molti gli indicatori che puntano verso una dimensione del fenomeno ben diversa. Anzitutto la comunità #reddit dei detransitioners conta ormai 42.400 iscritti. Dati estratti dall’US Transgender Survey hanno evidenziato un tasso di pentimento del 13,1%, e provenendo da un campione di persone trans, come dicevamo sopra, probabilmente è ancora un dato estremamente sottostimato. Le risorse per chi si trova in questa situazione o per documentare questa realtà si sono moltiplicate negli ultimi tempi, con gruppi come il Pique Resilience Project e il Detransition Advocacy Network e siti come post-trans.com, detransvoices.org, sexchangeregret.org, trans-truth.com e detransawareness.org. Su Twitter, Tiktok e altri social sono ormai innumerevoli le testimonianze spontanee di ragazzi e ragazze che raccontano la loro condizione di detransitioners. Nel 2021 è stato istituito perfino un giorno mondiale della consapevolezza detrans, il 12 marzo. Non mancano i documentari e gli approfondimenti gender critical: dalla celebre serie svedese Trans train al recentissimo Adult human female di Reality Matters (uscito il 1° dicembre) che ha la particolarità di venire dall’ambiente del femminismo radicale, quindi di rappresentare una critica “dall’interno” della stessa cultura woke che promuove anche la gender theory.
Un capitolo importante sono i documentari sul fenomeno detrans: in uscita a breve è Affirmation generation (Panacol Productions), che racconterà le testimonianze di sei detransitioners. Raccomandiamo intanto (al netto della componente cattolica) la visione di Dysconnected (Runaway Planet Pictures) uscito lo scorso 8 ottobre, in cui il commovente racconto di Daisy Strongin, ragazza che si è pentita del percorso di transizione, è alternata alla riflessione di genitori, docenti, medici e attivisti che a vario livello discutono l’attuale deriva del fenomeno. Tra questi Ryan Anderson, autore di Why Harry Became Sally, uno dei primissimi libri gender critical e il primo a ricevere un ban da Amazon con l’accusa di promuovere l’odio (hate speech), e gli autori e attivisti, detransitioners anch’essi, Erin Brewer (co-founder di Advocates Protecting Children) e Walt Heyer (host di sexchangeregret.org e autore di Trans Life Survivors). Chiudiamo facendo nostre le parole di Erin Brewer in Dysconnected: «Non stiamo facendo questo perché siamo “anti-transgender”. Stiamo facendo questo perché crediamo che ci siano bambini che hanno subito abusi, che soffrono, che sono traumatizzati, che finiscono per adottare un’identità transgender come meccanismo di difesa; e questi bambini ci stanno profondamente a cuore. E non vogliamo perciò che siano medicalizzati a vita, non vogliamo che si convincano di essere intrinsecamente sbagliati. Questo è l’approccio amorevole. Non è per niente amorevole dire a un bambino che dovrebbe diventare qualcun altro, perché quello che è adesso non va bene. In questo non c’è amore, non c’è empatia, non c’è compassione».