La Fionda

“Delirio da gelosia”. Parola d’ordine: infierire, infierire, infierire.

Brescia: Antonio Gozzini, 80 anni, viene assolto perché giudicato non imputabile in merito all’omicidio della moglie, Cristina Maioli. Nessuno ha detto che sia innocente. Non è imputabile, il che è cosa diversa dallo stabilirne l’innocenza, dal giustificare la gelosia, dall’infangare la morte della povera Cristina. Accusa e difesa concordano sul fatto che l’omicida “era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida”. Delirio, non raptus, la differenza è concreta. Eppure tante voci si levano per protestare: non ha rimediato 30 anni quindi scatta l’indignazione. C’è chi, pur definendola decisione sconcertante, dichiara di aspettare le motivazioni per esprimere un giudizio definitivo, e chi delle motivazioni si disinteressa, non ha bisogno dei spiegazioni tecniche, giuridiche o psichiatriche per recitare il solito mantra sulla società patriarcale che odia le donne, sulla discriminazione, la vittimizzazione e la rivittimizzazione (“con questa sentenza la donna è stata uccisa due volte”), sul ripristino del delitto d’onore, sulla legittimazione del possesso maschilista, etc. Qualcuno azzarda pure che gli uomini se la cavano sempre quando ammazzano una donna.

Interrogato sull’argomento, il mio benzinaio se n’è uscito con un perentorio “certo che hanno proprio la faccia come il culo”. Devo prendere le distanze dal suo pensiero e dal modo di esprimerlo, si può dissentire ma senza insultare. Lui però insiste: “ma come, le donne che ammazzano adulti e bambini o agiscono per legittima difesa, o hanno la depressione post-partum, o hanno uno scompenso ormonale per la sindrome mestruale, poi vanno in una struttura di rieducazione o ai domiciliari invece che in carcere e salta fuori sempre una perizia per stabilire che all’epoca del delitto, proprio quel giorno e proprio a quell’ora, l’assassina era temporaneamente incapace di intendere e volere. Quando invece quello incapace di intendere e volere è un uomo, ‘ste scappate di casa gridano allo scandalo”.  Ciò che il benzinaio descrive in maniera un po’ naïf viene da tempo identificato come cronica asimmetria valutativa in base al genere di autori e vittime di un evento delittuoso. C’è molta letteratura scientifica che rileva tale asimmetria, alcuni estratti da un testo della dr.ssa Alessandra Bramante, criminologa.

mano donna coltello

Pene blande o impunibilità per la donna che uccide adulti e minori.

Philip Resnick – Tendenza a considerare la donna “malata” piuttosto che “assassina”. Nel 68% dei casi le donne finiscono in clinica psichiatrica mentre solo il 27% sconta una pena detentiva in carcere. Per gli uomini la situazione è invertita, il 14% viene inviato in manicomio contro un 72% che viene imprigionato e/o condannato a morte. Marks/Krumar – In merito alla soppressione dei figli rilevano come le madri vengano mandate in carcere meno frequentemente rispetto ai padri, pur avendo commesso lo stesso reato. Le percentuali: 84% dei padri e 19% delle madri con una pena detentiva in carcere. D’Orban/Cheung –  Percentuali inferiori, attorno all’ 11%, di donne in carcere in seguito ad omicidio di adulti, adolescenti o bambini; la maggior parte ottiene la libertà condizionale o va in un ospedale psichiatrico. (Alessandra Bramante, “Dall’amore alla distruttività”, ed. Aracne, 2005). Anche la casistica italiana registra con costanza una pena blanda o l’impunibilità della donna che uccide adulti e minori.

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Bisogna infierire. Anche calpestando la cronaca, anche calpestando la giustizia.

Il disturbo psichiatrico, sia cronico che temporaneo, è riconosciuto come attenuante o dirimente pertanto si traduce in pene miti o mancata imputabilità dell’assassina. Quando chi uccide è una donna, quindi, non prende l’ergastolo al grido di “giustizia è fatta”. Quando invece l’assassino è un uomo diventa inaccettabile che un disturbo psichiatrico – un delirio – lo renda non imputabile. Anche se, come hanno precisato in una nota i giudici bresciani, “il delirio di gelosia è una patologia psichiatrica che può comportare uno stato di infermità tale da escludere l’imputabilità”. Fa riflettere l’accanimento giustizialista nei confronti dell’ottantenne Antonio Gozzini:  chissenefrega delle sue patologie, è un uomo quindi ci vuole una pena esemplare, l’ergastolo o almeno 30 anni, anche se per un 80enne pure “solo” 15 anni di detenzione significano galera a vita. Non è chiaro dove sia il confine tra una giustizia imparziale e la insaziabile sete di vendetta femminista. Emerge un accanimento feroce, fioccano le proteste perché bisogna infierire sull’assassino, la vittima è una donna quindi non si può dire l’abbia uccisa perché era mentalmente disturbato, la deve per forza aver uccisa inquantodonna.

La sollevazione anti-Gozzini ricorda analoghe proteste in occasione del delitto di Carignano perché i media avevano osato dire la verità, cioè che fino al giorno prima di sterminare la famiglia il tizio non era affatto un orco maltrattante, che la vittima aveva un amante, che era gioiosa all’idea di quella separazione che invece aveva reso lui disperato. I giornalisti sono persino stati accusati di non usare una terminologia abbastanza aggressiva da soddisfare la smania di criminalizzazione della figura maschile. Carignano come Brescia: bisogna infierire. Anche calpestando la cronaca, anche calpestando la giustizia



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