Siamo radicalmente contrari all’approvazione del DDL Zan, l’abbiamo detto già tempo fa e scritto più volte. Non siamo i soli, per fortuna. E tutti noi contrari ogni volta che esprimiamo la nostra posizione, quando non veniamo derisi, insultati o aggrediti, ci sentiamo dire sempre la solita frase, quasi una litania: «dici così perché non hai letto la legge». Ebbene, il testo di legge in discussione al Senato è qui, l’abbiamo letto e abbiamo pure evidenziato le principali anomalie. Che, al di là di questioni secondarie, per quanto significative (come il tentativo di ficcarsi nelle scuole, vecchio viziaccio degli LGBT, la giornata istituzionale contro l’omobilesbotransfobia, e i vari meccanismi per distribuire soldi pubblici alle associazioni di settore), sono essenzialmente due e vanno analizzate con cura. La prima è contenuta interamente nell’articolo 1 che, «ai fini della presente legge» (formula da tenere in memoria per dopo), elenca alcuni presupposti terminologici cruciali per tutto l’impianto normativo. Nei suoi quattro commi, l’articolo distingue tra sesso (quello biologico o anagrafico), genere (la manifestazione esteriore di una persona, conforme o meno con le aspettative sociali connesse al sesso), orientamento sessuale (l’attrazione sessuale o affettiva verso persone dello stesso sesso, dell’altro sesso o di entrambi), e l’identità di genere (l’identificazione percepita e manifestata in sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendente dall’aver concluso un periodo di transizione).
Chi legge con costanza questo sito troverà assonanza tra questo primo articolo e un’altra faccenda di cui ci siamo occupati di recente, il progetto realizzato da “ActionAid”, con soldi europei, chiamato “Youth for love“. Al suo interno si può reperire l’origine di quella quadripartizione concettuale e terminologica messa all’inizio del DDL Zan: la “genderbread person”. Si tratta di un concetto elaborato nel 2012 dall’attivista Sam Killermann (nomen omen) che ha ideato una grafica simpatica e accattivante, atta a spiegare il principio secondo cui una persona può riconoscere in sé le quattro componenti menzionate in modo diversificato e cangiante. La “genderbread person” è il frutto di un paio di decenni di elaborazioni teoriche portate avanti dalle accademie “woke” d’oltreoceano, britanniche e scandinave, impegnate ad attualizzare, attraverso i cosiddetti “gender studies” (studi di genere), concetti più antichi. La stessa idea di genere come cosa diversa dal sesso è infatti invenzione di John Money, sessuologo americano in voga negli anni ’60 e autore di grandi disastri. I concetti della”genderbread person” sono insomma l’esito di mere teorie elaborate da una parte della comunità scientifica. Si tratta di scienze umane, non di matematica o fisica, dunque il margine di errore è altissimo. Non molti decenni fa le teorie di Lombroso erano considerate all’avanguardia e giuste, oggi le guardiamo con orrore, ad esempio. Non solo: i teoremi elaborati dai “gender studies” sono tutt’altro che condivisi dalla maggioranza della comunità scientifica. Le poche citazioni che hanno sono reciproche e l’unica cosa che possono vantare è un’ottimo supporto marketing da parte di molte lobby internazionali.
Di fatto l’ampia comunità scientifica non ha aderito a quelle teorie. La “genderbread person”, tra le altre teorizzazioni, è molto contestata e alla fine sbugiardata da molti lati, accademici e non. L’idea alla sua base è che il sesso biologico sia pressoché irrilevante: ciò che conta davvero sono l’identità e il genere che si sviluppano nel corso della crescita, sotto l’influenza di condizionamenti sociali e culturali, spesso determinati da stereotipi che andrebbero abbattuti perché creano discriminazioni verso chi devia dall’irrilevante setting biologico. La maggioranza della comunità scientifica dissente: se la teoria fosse fondata, infatti, si dovrebbe riscontrare che dove vi è a un elevato impegno per l’eliminazione degli stereotipi si ha un calo drastico delle differenze e delle discriminazioni. Peccato che non sia così, anzi accade l’esatto contrario, e a dimostrarlo ci sono montagne di studi psichiatrici, psicologici, sociologici e antropologici che vantano migliaia e migliaia di citazioni scientifiche. Ovunque si sia spinto su politiche “egalitarie” e iper-tutelanti ispirate alla filosofia della “genderbread person”, le scienze sociali realmente accreditate hanno registrato un radicale aumento della differenziazione tra i generi e delle discriminazioni. E più gli stati cercavano di forzare il setting biologico, con un invasione sempre più opprimente delle politiche pubbliche sulla libertà individuale e sull’infanzia, più le differenze di genere e le discriminazioni si radicalizzavano. A riprova che il setting biologico conta eccome, anzi è preponderante: cultura e società intervengono al massimo per esaltare o mitigare certi aspetti scritti in modo indelebile nel nostro DNA. Gli studi di cui parliamo sono liberamente consultabili su internet, ma sono complessi e in genere in lingua inglese. Ne esiste una versione popolare molto conosciuta e per certi versi anche simpatica: è il video “Il paradosso della parità norvegese” (qui sopra), che dà una chiara idea della sostanziale infondatezza della teoria della “genderbread person” e della prevalenza dell’influsso socio-culturale su quello biologico. Per la cronaca: dopo la diffusione del video, la Norvegia chiuse tutti i centri e i dipartimenti di “gender studies” del paese.
Ma che c’entra tutto questo con il DDL Zan? C’entra eccome, anzi è la chiave di volta. Di fatto in Italia si sta discutendo se approvare una legge che al suo primo articolo pone una condizione molto chiara (ricordate l’incipit «ai fini della presente legge…»): credere in una teoria elaborata anni fa da un oscuro attivista, minoritaria dal lato scientifico e ampiamente dimostrata come infondata, non sarà più un’opzione ma un obbligo di legge. Lo schema della “genderbread person”, con tutto il suo carico di contraddizioni, diventerà parte integrante dell’ordinamento di un intero paese, con tutto ciò che da esso può discendere. Che gli individui possano essere divisi, tipo spezzatino psicologico, in sesso/genere/orientamento/identità di genere è solo una tesi tra le tante, per altro contestatissima. Risulta vera solo in un numero talmente piccolo di casi affetti da (vera) disforia di genere da non poter giustificare una legge che vada a incidere direttamente sulle regole della convivenza civile di una comunità. Tanto meno si può riservare per tale teoria un riconoscimento univoco per legge. Davvero, e fuor di battuta, sarebbe come stabilire l’obbligo per tutti ad aderire alle teorie di Lombroso o al geocentrismo, all’alchimia, al creazionismo o al flogisto. Il fatto è che pure i sostenitori del DDL Zan (e lo stesso Zan, ci scommettiamo) sanno bene che si tratta di idee e ipotesi accademiche, discusse e discutibili, non certo di una verità assoluta. Ma sanno anche che quelle idee hanno un poderoso appoggio ideologico-comunicativo e una straordinaria prospettiva, in termini di interessi economici e politici. Ecco perché da anni insistono su questa visione della realtà e dell’individuo, cercando di imporre per forza di legge quella che è una teoria tra le tante, per di più minoritaria, relativa alla natura umana. Una sciocca e inutile lotta contro la realtà (vedasi video qua sotto, datato 1979, dunque profetico…) in cui comunque ognuno dovrebbe essere libero di credere o no, non altro. Sicuramente non qualcosa da imporre per legge. Gli ultimi che hanno fatto una cosa del genere, occorre ricordarlo, obbedivano a un tizio coi baffetti e avevano stabilito per legge che le teorie razziali fossero l’unica verità in cui credere, pena la fucilazione.
Il cuore dell’anomalia del DDL Zan sta tutta lì.
Svelato da dove venga il primo articolo del DDL Zan, quello su cui si basa tutto, in teoria il castello dovrebbe crollare. E in effetti crolla, ma c’è chi non ne approfitta. Non si spiega infatti (se non con l’ignoranza o la malafede) perché non ci sia politico d’opposizione che faccia notare, ricerche scientifiche alla mano, quanto abbiamo illustrato finora. Che è la premessa del secondo elemento critico del DDL Zan, l’articolo 4, quello che, in via del tutto teorica, dovrebbe tutelare la libertà di opinione, cioè risparmiare il carcere a chi pensa e dice che gli uomini hanno il pene, le donne la vagina e un figlio può nascere solo dalla piacevole congiunzione dei due. Ebbene a tutti gli effetti la prima parte dell’articolo sembra andare nella direzione giusta, salvo poi crollare malamente quando dice che vanno bene tutte le idee «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti». Qui ci sono due buchi. Primo: chi decide dell’idoneità o meno di un’idea a determinare eccetera eccetera? Una legge deve obbligatoriamente descrivere con chiarezza il comportamento deviante che sanziona. Qui no. Al buco si risponde di solito: decide il giudice se quell’idea è idonea o no a determinare eccetera… Quindi dovremmo consegnare a un singolo organo dello Stato (per di più ultimamente oscurato da ombre molto profonde), anzi a singoli individui togati che potrebbero usare la discrezionalità concessa per applicare proprie idee personali, la disciplina della libertà di opinione di 60 milioni di persone? No grazie. La legge ha da essere precisa. Qui c’è qualcosa sotto.
Ciò che c’è sotto è la seconda cosa che non va: l’idea “sbagliata” presa di mira dal DDL Zan non è quella che induce direttamente al compimento di atti discriminatori e violenti, ma quella che può determinarne il pericolo. Cioè non è condannabile solo quello che dice: «al rogo tutti gli omosessuali», ma chiunque dica qualcosa che possa innescare il rischio che a qualcuno scatti la violenza. Quel qualcosa resta di nuovo indeterminato. Due nebulose concentrate in poche righe di un articolo di legge… Mica male. Ma la soluzione c’è, anche se solo sottintesa: il sentore. La discrezionalità del giudice ha bisogno di un aiutino per capire se c’è stato o no un reato: di solito si usano prove e testimoni ma quando non è possibile produrne, come nel caso dei reati legati all’espressione delle idee, come si fa? Facile, si chiede alla presunta vittima: «ti ha fatto male? Ti ha fatto sentire in pericolo?». E che vuoi che risponda? «Tantissimo, Vostro Onore. Quando ho letto il tweet dove Tizio ha scritto che solo le donne hanno i cromosomi XX, sono stat* male per come mi sono sentit* discriminat* e in pericolo». Tanto basterà: con ciò si avrà la prova del reato e una condanna a prova di Appello e Cassazione. Già funziona così nello stalking e in molti casi di violenza sessuale, funzionerà così anche per i reati (in)definiti dal DDL Zan. Significa che la libertà di parola in Italia sarà rimessa nelle mani dei sentori di una minoranza, gli LGBT, sottoposti alla discrezionalità di un’altra minoranza, i magistrati. A voi sta bene? Non si risponda con idiozie tipo: «mi dichiaro donna e risolvo tutti i miei problemi». Non è tempo di boutade, bisogna iniziare a rendersene conto. C’è in atto un tentativo di imporre un’idea specifica (e molto controversa) di essere umano, stroncando ogni possibile dissenso a quella stessa idea. A corollario c’è poi tutta l’altra roba: l’invasione delle scuole, i soldi, le celebrazioni, ma sono quisquilie di contorno. Il cuore dell’anomalia del DDL Zan sta tutta lì: rendere legge una teoria tra le tante, maggioritariamente giudicata priva di fondamento, e porre a sua difesa un immenso potere in mano a una sparuta minoranza ideologizzata e rabbiosa. Niente più teoria della razza e camicie brune a imporla: oggi c’è la “genderbread person” e le camicie arcobaleno. Roba che nulla, ma proprio nulla ha a che fare con i diritti, i problemi e le esigenze di omosessuali e transessuali, e tutto ha invece a che fare con il potere e il dominio di pochi su molti.