di Davide Stasi. Chi ha seguito la vicenda fin dal precedente blog “Stalker sarai tu” ricorderà che in pieno lockdown si annunciò l’attivazione di una nuova funzione sulla app YouPol della Polizia di Stato. Il sistema, fino a quel momento, consentiva a chi lo scaricava e installava sul telefono di attivare un intervento delle forze dell’ordine su specifiche casistiche. In sostanza era un altro modo per chiamare il 112. L’isteria mediatica, alimentata dalla politica e dai centri d’interesse dell’industria antiviolenza, fece in modo, durante la pandemia, che venisse inclusa nella app YouPol anche la possibilità di attivare interventi a seguito di violenze domestiche. L’implementazione fu ampiamente pubblicizzata. Ricorderete che durante i mesi di serrata causa covid-19, due erano i messaggi ripetuti ossessivamente: uno era “state a casa”, l’altro era “chiamate il 1522” o in subordine “usate la app YouPol”. Il presupposto, martellato a reti unificate, era che le vittime di violenza (tutte donne), costrette in casa col carnefice (sempre uomo), sarebbero state in difficoltà nell’allertare i soccorsi, con ciò inducendo una recrudescenza del fenomeno violento.
Qualche mese dopo il 1522 fece uscire i suoi dati, che ovviamente rilevavano come la violenza sulle donne avesse dilagato durante il periodo di restrizioni. Numeri folli, incredibili, che poco dopo saremmo andati a verificare, nel momento in cui erano stati addirittura acquisiti dall’ISTAT, dimostrando tutta la loro totale inconsistenza. In allora, ben sapendo che si trattava di numeri non verificabili, scrissi all’Ufficio Stampa della Polizia di Stato per chiedere se si potevano avere i dati delle chiamate tramite la app YouPol per casi di violenza domestica durante il lockdown. Quelli sarebbero stati numeri veramente rilevanti, perché avrebbero svelato quante chiamate di soccorso reali erano state fatte e non, come nel caso del 1522, mere telefonate con richiesta di informazioni senza alcuna verifica sul chiamante. Ero certo che, con i dati YouPol in mano, avremmo avuto una forbice amplissima tra quanto dichiarato dal 1522 e la realtà dei fatti. Ed ero ottimista perché, come ogni app che si rispetti, YouPol è sicuramente strutturata su un semplice database, capace di restituire estrazioni di dati con grande rapidità ed efficacia.
È un problema che si chiama regime.
Si ricorderà che in un primo momento l’Ufficio Stampa della Polizia di Stato mi rispose con grande cortesia, informandomi che la mia richiesta, come quelle simili di ogni altro organo di stampa, sarebbe stata evasa in breve. Quel breve si è trasformato in mesi, durante i quali non ho mollato la presa, inviando un sollecito almeno una volta al mese. Ho stalkerato la Polizia di Stato, in sostanza, ma ritenevo (e ritengo) quei dati di tale importanza che non ho temuto incriminazioni. Insistere è servito: in luglio mi chiama una gentilissima agente dell’Ufficio Stampa chiedendomi dettagli sul mio interesse per quei dati. Non nascondo nulla: chi sono, cosa faccio, il blog e il mio punto di vista. L’agente sembra quasi aderire al mio approccio, capisce quali sono le mie finalità e mi assicura che in pochi giorni avrei avuto i dati richiesti. Quei giorni sono diventati settimane, complice anche il periodo di ferie (penso io), dunque paziento ancora. In settembre, però, riprendo lo stalking via email. Si avvicina il 25 novembre, data della grande kermesse dell’industria dell’antiviolenza nazionale, dove i dati del 1522 verranno sbandierati come veri e seri. Dunque le statistiche del database YouPol sono diventate urgenti.
L’epilogo avviene qualche giorno fa. Sempre la stessa gentilissima agente mi telefona, si scusa molto per il ritardo con cui mi viene risposto e infine si arriva all’esito finale: “i dati che lei ha richiesto non sono disponibili”. Vacillo per qualche secondo. A luglio dovevano arrivarmi a giorni, in aprile dovevano essere mandati alla stampa, e ora non sono disponibili? Azzardo: “ma non ci sono proprio, oppure ci sono e non siete autorizzati a divulgarli?”. L’agente non abbocca al banale espediente: “non sono disponibili”, ribadisce. Mi reindirizza al sito del Ministero dell’Interno, dove si trovano solo dati vecchi, non scorporati per il periodo di lockdown e non relativi alla app YouPol. Di fatto la Polizia di Stato, pur rendendo merito alla squisita gentilezza con cui si è rapportata con me, mi dà picche, sebbene tecnicamente i dati siano ottenibili con qualche semplicissima query al database della app. Con tutta la buona volontà, non posso non pensare che si tratti di statistiche troppo rivelanti per poter essere divulgate. Ho reso pubblica questa mia ricerca e sicuramente chi non vuole che si sappia la verità delle cose si sarà attivato ai massimi livelli perché mi venisse detto no. Un diniego che vale più di qualunque statistica certificata. Forse ho sbagliato a rendere pubblico il mio interesse, ma io cerco di non fare mai le cose di nascosto. Quelli che chiedo sono dati rilevanti, io sono un cittadino, loro sono istituzioni obbligate alla trasparenza, dunque non vedo il problema. O meglio, lo vedo (da tempo) che sovrasta le nostre vite e non solo gli uffici della Polizia di Stato. Ed è un problema che si chiama regime.