“Shaping fair cities – agenda 2030”, ovvero “dare forma a città giuste”, si chiama il progetto realizzato a Ravenna, sotto l’egida e con il finanziamento della Commissione Europea che, com’è noto, ha fatto propria in toto la (in buona parte) devastante “Agenda 2030” dell’ONU, quella orientata a plasmare il futuro della civiltà, per lo meno quella occidentale. Sull’iniziativa, e probabilmente anche sui relativi finanziamenti, si sono gettate un sacco di associazioni ravennate, nomi noti e meno noti, tutti molto musicali e affabulanti: “Liberedonne”, “Casa delle donne”, “Villaggio globale”, “Femminile maschile e plurale”. Un think-tank da far accapponare la pelle, che ha prodotto da par suo: lo scopo generale dell’iniziativa era la promozione di una cultura di rispetto della parità di genere, di sensibilizzazione alle pari opportunità e prevenzione e contrasto alla violenza di genere. Roba originale, insomma. Tutto ha preso corpo in un workshop intitolato “Le ragazze stanno bene a Ravenna”. Sottinteso: “i ragazzi si fottano pure”. È questo workshop che ha partorito il capolavoro del secolo: dieci slogan da mettere su dieci pannelli per una campagna di comunicazione per deturpare la città.
In rete ne è circolato uno (che abbiamo messo qui in copertina), grazie al cielo ci hanno risparmiato gli altri nove. Rappresenta una donna dall’incarnato scuro, con occhiali e hijab, il tipico velo con cui le donne musulmane si coprono il capo. Sopra l’immagine campeggia uno slogan: “non chiamarmi signorina, chiamami DOTTORA”. Non servono particolari commenti, né particolari ironie: il manifesto si commenta da sé. Vale la pena solo sottolineare come questo sia a tutti gli effetti il futuro distopico progettato dall’Agenda 2030: partendo dalla buona intenzione della tolleranza e dell’integrazione, si lascia mano libera alla forma più degradata e degradante del femminismo (che già di suo è una forma di grave patologia): il femminismo intersezionale. Quello per cui ogni oppressione si incrocia con l’altra e tracciando un sunto finale si trova un solo colpevole: l’uomo bianco eterosessuale. Questa immondizia ideologica partorisce assurdità linguistiche come quella presente nello slogan, ma soprattutto innesca contraddizioni fulminanti che, in tempi di opinione pubblica non in stato comatoso, renderebbero subito fallimentari iniziative del genere. Una su tutte: lo slogan pretende di affermare la dignità femminile laddove l’immagine grafica ossequia una cultura, quella islamica, che notoriamente fatica a rispettare quella stessa dignità. La signorina raffigurata con l’hijab, difficilmente potrebbe pretendere il titolo di “dottora” là dove è nata. Può pretendere questo assurdo soltanto da noi, dove addirittura vengono stanziati fondi per porcherie del genere. Che alla fine, però, saturano di retorica l’opinione pubblica, invece di indurla alla tolleranza, così ottenendo l’effetto contrario.
Il reddito mensile di Palm Springs.
Così è, come parte integrante di una decadenza che sembra non avere né freni né fine nelle nostre lande occidentali ormai sull’orlo della più profonda decadenza. E alla fine noi italiani possiamo ancora dirci fortunati, se diamo un’occhiata a ciò che accade attorno a noi. In Spagna ad esempio è stata decisa di recente l’abolizione dell’insegnamento nelle scuole della filosofia e della storia. Cioè è stato deciso di recidere le radici intellettuali delle nuove generazioni, privandole così di ogni capacità di inquadramento del presente, oltre che di ogni identità. Una decisione già aberrante così, ma che la femministissima Spagna è stata in grado di rendere ancora più disumana: le ore un tempo dedicate alla filosofia e alla storia verranno destinate a nuove materie: “ecofemminismo” e “diritti LGBT”. Il primo sta sulla falsariga del già menzionato femminismo intersezionale: sul maschio bianco etero, si sa, ricade anche la colpa della crisi climatica globale. Dunque è fondamentale insegnare alle nuove generazioni quali sono le soluzioni “femministe” al problema. Dire femminismo intersezionale, significa però anche pagare pegno alle lobby LGBT, ed ecco che i diritti propri di quella comunità minoritaria, qualunque essi siano, diventano materia di studio. La cosa vi impressiona? Siete degli ingenuotti. Queste cose accadono sempre all’interno di imperi nella loro fase finale e definitiva di decadenza. C’è da indignarsi oggi, sicuramente, ma anche da essere contenti. Iniziative come quella ravennate e quella spagnola sono i sintomi più evidenti di una patologia mortale che volge rapidamente al suo stadio terminale.
Queste baggianate europee, tuttavia, non sono originali del Vecchio Continente, bensì derivate dalla mente pensante, dalla forza coloniale che da decenni tiene in pugno la cultura diffusa dell’occidente, ovvero gli Stati Uniti. E lì sono molto più avanti nel degrado, oh se sono avanti. Delle leggi che legalizzano l’infanticidio si è detto settimana scorsa. Ma nel frattempo è saltata fuori un’altra novità, sempre riguardante l’avanguardista California, in particolare la sua nota cittadina di Palm Springs. Lì è allo studio quello che i critici hanno già ribattezzato un “reddito di frocianza”: 900 dollari al mese (circa 815 euro) garantiti, per il solo fatto di essere trans o gender fluid. La ragione? Gran parte degli appartenenti a quella minoranza non trova lavoro, dunque è povera e ha diritto a un sostegno. Si dirà: e gli altri che non rientrano nel mondo LGBT, non trovano lavoro e sono poveri uguale? Si fottano, come i ragazzi di Ravenna. L’appartenere al circuito omosessualista, ovvero trasformare un’inclinazione sessuale del tutto privata e personale in uno strumento ideologico e politico, a Palm Springs diventerà qualificante per avere un reddito mensile sicuro, tratto dai molti milioni di dollari che lo stato della California mette a disposizione ogni anno proprio per questo genere di cose.
Il crollo dell’impero.
Si dirà: vabbè, ma gli USA sono variegati, se in California si fa così, in Florida, ad esempio, il governatore Ron DeSantis ha fatto una legge che proibisce la propaganda LGBT nelle scuole. Vero, ma fino a un certo punto. La subcultura liberal (o progressista) ha segnato nell’ultimo decennio il suo più grande successo: imporre che i suoi punti ideologici diventassero imprescindibili per chiunque, anche per la parte politica avversa. Questo è il motivo per cui solo un ingenuo può attendersi prese di posizione antifemministe o antiomosessualiste da partiti o personaggi non appartenenti a quel mondo. Fa sorridere chi spera che i reppubblicani americani (o Fratelli d’Italia qui da noi, ad esempio), possano rappresentare un argine a questo tipo di decadenza. Ormai è pressoché impossibile assumere posizioni diverse da quelle del dettato unico liberal. Per farlo serve molto coraggio, molti soldi, un’ottima organizzazione e un leader carismatico, che è poi quello che caratterizza il partito Vox in Spagna o i movimenti antifemministi in Sud-Corea. Piccole oasi di normalità e buon senso, che però non arginano il dilagare generale dell’Agenda 2030 e dei suoi figli deformi. E la prova è lì, proprio negli USA e nella legge di Ron DeSantis, che molti (noi compresi) sulle prime hanno accolto con favore. A leggerla bene, infatti, si scopre che il divieto c’è, sì, ma vale solo per i primi tre anni di scuola elementare. Dai 9 anni in su sarà possibile andare a raccontare a bimbi e bimbe che possono essere del genere che preferiscono, basta volerlo. Parafrasando il grande Totò: “poi dici che uno si butta sulla Russia…”. Più seriamente, non resta che auspicare un’accelerazione del crollo dell’impero, in modo che meno generazioni possibile vengano coinvolte in questo tipo di degenerazione.