L’articolo della cronista Cristina Bassi, pubblicato sul sito de “Il Giornale” lunedì 8 febbraio alle ore 6.00, lascia pochissimo spazio alla fantasia e, se vogliamo, pure al tatto. «Prostituta accoltellata in strada: caccia all’assassino», dice il titolo. L’articolista non ha dubbi sulla natura del delitto: «si indaga nel mondo dello sfruttamento». Pare ovvio, visto l’antico mestiere svolto dalla donna. Ci si potrebbe fermare qui, ma non vogliamo fare come l’italiano medio, che si limita alla lettura di titoli e sommari, dunque proseguiamo la lettura, perché davvero significativa. L’incipit dell’articolo è questo: «A morire sotto i numerosi colpi è stata una donna di 47 anni nata in Albania. Si chiamava Luljeta Heshta e faceva la prostituta lì dove è stata uccisa». Ecco la perizia della brava giornalista. Poche righe e c’è già tutto ciò che serve: la notizia (morte violenta), identità della vittima, professione e scenario del delitto. In queste poche righe si tratteggia anche il contesto del reato: essendo avvenuto proprio nella zona “battuta” dalla donna, è chiaro che si tratti di un delitto malavitoso. Segue l’approfondimento, della vicenda, con tutti i dettagli necessari.
La cronista è informata sulla zona, probabilmente ha parlato con qualcuno delle Forze dell’Ordine per avere dettagli. Dunque sa (e lo scrive) che quella è un’area in mano alle bande dell’Est Europa che sfruttano la prostituzione, dove le donne si vendono in strada. La vittima aveva piccoli precedenti e «lavorava nella zona da tempo». Dunque era una professionista nota a tutti, Polizia inclusa. La giornalista Cristina Bassi deve avere buoni contatti tra le Forze dell’Ordine e in Procura, perché riporta osservazioni tipiche di chi svolge indagini: «il movente dell’omicidio non sarebbe la rapina, visto che a Luljeta Heshta non è stato rubato nulla. Si cerca un cliente o un protettore o comunque qualcuno legato al racket della prostituzione». A confermare che sia questo c’è un aspetto che la giornalista forse non conosce. È rivelatore infatti che l’assassino abbia concentrato i colpi di coltello sulle gambe della povera vittima più che sul busto: si tratta di un tipo di attacco tipico, quasi un marchio di fabbrica, della malavita dell’Est, che per avere certezza di uccidere il bersaglio mira dove la vittima meno se l’aspetta, cioè all’arteria femorale. A parte ciò, che sia un omicidio maturato nel degrado e nella criminalità appare piuttosto ovvio e la giornalista giustamente lo dice in chiaro e senza mezzi termini.
Le mutevoli ipotesi della Procura.
Il problema è che, raccontato così, il delitto non può essere incluso nell’elenco dei “femminicidi” (anche se lo inseriranno comunque), ma soprattutto che l’articolo risulta del tutto inappropriato rispetto alle direttive sindacali fascistoidi per cui di certi eventi occorre parlare sempre in un certo modo specifico, per indottrinare al meglio i lettori alla criminalizzazione dell’uomo e vittimizzazione della donna. L’articolo però ormai è online, molto visitato e commentato, anche perché c’entrano persone immigrate e questo scatena l’attenzione di molti, quindi non lo si può nemmeno mettere offline senza attirare l’attenzione generale. Online i contenuti però si consumano nel giro di minuti, dunque dopo poche ore è possibile raccontare di nuovo la vicenda revisionandone totalmente i toni, in modo da renderlo conforme ai diktat generali. Ecco allora che alle 15.30, più di nove ore dopo l’articolo preciso e circostanziato di Cristina Bassi, esce un altro pezzo, stavolta firmato da Rosa Scognamiglio. Ed è un articolo che, non sulla dinamica ma sullo scenario generale, racconta tutt’altra storia. Di Luljeta e della sua vita si dice solo, con toni ben più emozionali di quelli cronachistici del pezzo di Cristina Bassi: «Di professione faceva la prostituta proprio lì, alla rotonda di San Pediano, su quella stessa strada dove ha trovato la morte».
Il resto dell’articolo si concentra sulle indagini e sulla cattura di un sospettato, A.K., albanese di 43 anni, individuato grazie alle telecamere di sorveglianza della zona. Chi è costui? Non ci vuole molto a capirlo: lo sfruttatore, il “pappa”, il malavitoso di turno, no? No. Così scrive la Scognamiglio: «Luljeta Heshta (…) è stata uccisa dal suo convivente». Può essere che lo sfruttatore vivesse con la prostituta, capita spesso, ma detto così pare che tra i due ci fosse una relazione. Non è casuale l’uso dell’aggettivo possessivo “suo”, che aggiunge intimità a quella che probabilmente era una convivenza tra sfruttatore e sfruttata. L’articolo prosegue con la cronaca delle indagini e della cattura dell’uomo, che ora si professa estraneo al delitto. L’ultimo paragrafo della Scognamiglio è dedicato al movente, elemento essenziale per la catalogazione del fatto di sangue, e quanto scrive fa saltare sulla sedia (corsivi nostri): «Stando alle primissime ricostruzioni, pare che i due convivessero da circa 20 anni ma, negli ultimi mesi, i rapporti si sarebbero notevolmente incrinati per via della gelosia. Secondo alcuni testimoni, Luljeta avrebbe intrattenuto una relazione con un altro uomo da qualche settimana; un flirt che il 43enne avrebbe scoperto poche ore prima del delitto. Sarebbe stato dunque questo, secondo le ipotesi della Procura, il movente dell’omicidio».
Il laboratorio della mostruosità sta molto più in alto.
Oplà, ecco sparito il delitto di malavita e servito un bel “femminicidio”. La notizia di un pappone che uccide la donna che schiavizza forse da vent’anni, dopo averla scoperta ad avere una relazione “normale” capace di portarla via dalla strada (capita spesso) e di privarlo della gallina dalle uova d’oro (sgarro che nella mala si paga col sangue), diventa magicamente un delitto “passionale”, come si sarebbe detto in tempi normali, cioè un “femminicidio” in questi tempi pazzi. Il tutto sebbene un pappone che uccide una sua prostituta per gelosia sia una ridicola contraddizione in termini. In ogni caso, poche ore sono bastate alla redazione de “Il Giornale” per frullare abbastanza una notizia di malavita e trasformarla in un assist per l’industria dell’antiviolenza. L’unica domanda da farsi è: la falsificazione, la fake news, è nata nella redazione motu proprio o è stata disposta da più in alto? Sono stati i giornalisti o le fonti della notizia a cambiare versione? Cristina Bassi ha palesemente raccolto la verità a caldo dagli operatori che conosce in Procura. Ed è probabilmente stata la stessa Procura che poi, a freddo, ha aggiustato il tiro, dando alla Scognamiglio la versione “ufficiale”, riveduta e corretta, da diffondere. È capitato a “Il Giornale” e noi abbiamo colto il ribaltamento di narrazione che, se si andasse a controllare, è probabilmente avvenuto anche in tutte le altre testate. Segno che la versione falsata della realtà ha la sua origine in Procura (il pesce puzza sempre dalla testa) e le redazioni sono solo colpevoli di essersi adeguate passivamente, al solito. Così chi specula sui conteggi falsati può far festa.
Premessa e causa di falsificazioni di questo genere è la rinnovata e potenziata volontà dell’industria dell’antiviolenza di appropriarsi adesso della totalità dell’opinione pubblica, ficcando a forza nella convinzione di tutti, tramite un incessante bombardamento informativo, che sia in atto una mattanza di donne per mano maschile. A dare la stura alla gragnola di bombe è stato il recente e inqualificabile report dell’ISTAT sugli omicidi in Italia (che commenteremo a breve), cui si è accodato obbedientemente tutto il mainstream, guardato a vista da tutti i gruppi di potere, politici e non, che traggono vantaggio dalla rappresentazione falsata della realtà. Il messaggio che passa, pervasivo e ossessivo, è sempre lo stesso: uomini tutti responsabili in solido degli atti di tre o quattro criminali, una maschilità complessivamente da rieducare, da cui occorre sradicare l’innata cattiveria e l’istinto violento e oppressore. Di contro: una massa di donne vittime di tale violenza, da tutelare, proteggere, potenziare. Il fine ultimo di questo battage distopico è chiaro: creare una diffusa propensione socio-culturale all’accettazione della destinazione di soldi, molti soldi (Recovery Fund), all’industria dell’antiviolenza, con tutto il potere che ne deriva, specie dal lato politico. Trasformare in nove ore una squallida e tagica storia di malavita in un “femminicidio” serve anche a questo. E la cosa più preoccupante è che il laboratorio dove è stata prodotta la mutazione non è la redazione di un giornale, ma qualche ufficio pubblico posto gerarchicamente molto molto più in alto.