Un meraviglioso, miserabile e tragicomico siparietto di partito è andato in scena in questi giorni all’interno della compagine del PD eletta al Consiglio Comunale di Genova. I fatti: il centro-destra, maggioritario nell’assemblea, propone un ordine del giorno dove nazismo, fascismo e comunismo vengono equiparati in quanto totalitarismi uguali nei loro caratteri e nei loro esiti. Non che il Comune di Genova abbia chissà quale voce in capitolo in merito, è solo una presa di posizione politica e palesemente provocatoria, come per altro è sempre la verità dei fatti se posta davanti a una propaganda settaria. Ci si sarebbe attesi che tutta l’opposizione votasse compattamente contro: gli esponenti del PD, che ancora fingono di fare riferimento a quel tipo di tradizione storica (sebbene siano tra i più estremi neo-liberisti su piazza), avrebbero dovuto alzare alto il vessillo rosso e dire che proprio no, non c’è paragone: anzi, sotto Stalin in Russia si stava una favola, niente a che vedere con Hitler o Mussolini. Invece sorprendentemente il PD si astiene, salvo poi accorgersi del reale contenuto dell’ordine del giorno e rimanere freddato sul posto. Per qualche motivo, incomprensibile sulle prime, i pronipoti di Berlinguer hanno partecipato passivamente a un atto di lesa maestà. Una macchia indelebile.
Ma è davvero incomprensibile il motivo dello scivolone? In realtà no. Le dita di quattro dei cinque consiglieri PD puntano tutte verso una stessa direzione, la Capogruppo Cristina Lodi: «non ha condiviso in tempo utile il testo dell’ordine del giorno su cui abbiamo sbagliato il voto», la accusano. Sale la tensione, l’indignazione e l’imbarazzo per aver rispettato una volta tanto la verità storica è tantissima e così i colleghi della Lodi non gliele mandano a dire: «Se non si dimette lei, mi autosospendo io, non è in grado di fare il suo mestiere», tuona Stefano Bernini, introducendo la necessità che la consigliera a questo punto si faccia da parte. Evidentemente i consiglieri del PD per qualche motivo non sono in grado di ottenere e leggersi da sé i documenti assembleari, devono essere abituati ad avere una badante che gli prepara il lavoro. Supponendo che così sia, effettivamente la Lodi ha dimostrato di non saper svolgere il proprio ruolo nel migliore dei modi e la richiesta di dimissioni è più che giustificabile. Non per la Lodi stessa però, che ha subito recalcitrato, cercando la mediazione del partito che nel frattempo, chiuso nelle sue stanze per cercare di risolvere l’arcano su come risalire la china elettorale a Genova e in Liguria, si è pressoché disinteressato della faccenda.
Cristina Lodi esultò su Facebook per aver limitato la libertà a una persona.
Ma dove sta il siparietto annunciato in tutto questo? Be’, un po’ è sicuramente nella caparbietà con cui, ancora a distanza di decenni, gli improbabili figli di Marx si ostinano a difendere un regime totalitario tra i più feroci mai esistiti. Ma questo è niente in confronto al tipo di difesa scelto da Cristina Lodi. Avrà forse dimostrato di aver inviato tutta la documentazione, che però non è arrivata a destinazione per un problema tecnico? Avrà addotto che lei stessa l’aveva ricevuto in ritardo? Molto più semplicemente: avrà ammesso il proprio errore e si sarà scusata, assicurando i compagni di partito che in futuro sarebbe stata più pronta, attenta o efficiente? Figuriamoci. La difesa della Lodi si articola in due frasi consegnate ai social e ai media: «Non sarà una questione di genere? Guarda caso sotto accusa finisce una donna, contro quattro uomini». Colta in fallo, cioè, Lodi si appella al vittimismo sessista. Parla di quattro uomini contro una donna come se si fosse trattato di un pestaggio e non di un confronto di posizioni all’interno di un partito, con al centro una sua palese inadeguatezza. È più forte di lei, insomma: sa di essere in torto e pur di non mollare l’osso si gioca la carta del sessismo, esibisce il superpotere del vittimismo. Solo che, le vicende del Governo Draghi l’hanno dimostrato, non è più tanto aria di donnismo di facciata nel PD, tant’è che la sua difesa viene archiviata in un picosecondo con tre parole: «un ragionamento assurdo». Ma dai? Bello quando anche i più tossici portabandiera dell’ideologia femminista sono costretti a scoprire l’acqua fredda.
Mentre scriviamo, Cristina Lodi non si è ancora dimessa. Cerca di tenere duro, arrivando pure a una specie di dietro-front pur di tenersi la medaglietta di Capogruppo: «Non voglio più parlare di sessismo», ha scritto su Facebook, «di sicuro il caso ha colpito perché è emerso nello stesso giorno in cui il partito nazionale presentava una squadra di governo senza neanche un donna». Insomma il fatto che a Roma il suo partito abbia messo ai ministeri i suoi capibastone senza cedere alla retorica donnista delle quote l’ha turbata tanto da farle dire una sciocchezza. Quei bruti maschiacci dei suoi compagni di partito però non ci cascano ed eleggono un nuovo Capogruppo, di fatto silurando la Lodi a forza. Qualcuno si chiederà come mai ci occupiamo di un fatto locale e tutto sommato non così rilevante. Be’, da un lato è sempre utile sottolineare la bieca e viscida malafede dell’uso del vittimismo e delle accuse di sessismo che le femministe fanno per togliersi dai guai o per nascondere le proprie inadeguatezze. Dall’altro, soprattutto, va ricordato che Cristina Lodi fu una di quelle che si spese di più, nel settembre 2019, per censurare il nostro Davide Stasi e far fallire la sua scomoda conferenza sullo stalking. Riuscita nel suo intento, Cristina Lodi esultò su Facebook (immagine qui sotto) per essere riuscita a reprimere e imbavagliare una persona libera, intenzionata a esercitare la propria libertà di parola. Alla luce di questo, il suo scivolone sull’ordine del giorno della maggioranza potrebbe non essere stato casuale: solo chi è conscio che comunismo, nazismo e fascismo sono la stessa cosa, e riconosce in uno di essi le proprie radici ideali, può esultare per il fatto che a una persona venga negata la libertà.