L’11 maggio scorso ricorreva il decennale della firma della ben nota Convenzione di Istanbul. Invece di istituire il lutto nazionale, come si dovrebbe, accompagnato magari da una mozione di uscita dalla trappola del Consiglio d’Europa, il Senato della Repubblica ha ritenuto doveroso celebrare la giornata, con un convegno-fiume in diretta internet mandato in onda il giorno prima. Ben tre ore e mezza di vero e proprio delirio ideologico, con le boss della Commissione Parlamentare contro il femminicidio a fare da maestre di cerimonie. Questo è ciò che resta dopo essersi sorbiti tutto intero il convegno: la sensazione angosciosa di aver assistito a un gruppo di folli complottiste ansiose di raccontarsela, declinando da ogni lato possibile tutti i capisaldi di base della propria teoria, con in più l’ansia di tenere ben coperto l’amplissimo giro d’affari e di potere che questa nasconde. Una sensazione che tocca il parossismo alla luce dall’elenco dei nomi delle partecipanti, che raccoglie non solo il gotha del femminismo suprematista italiano, pur se con qualche assenza, ma anche un vero e proprio summit istituzionale, con il Presidente del Senato, ben quattro ministri in carica (Pari Opportunità, Interni, Università e Giustizia) e la Segretaria Generale di un ente internazionale (il Consiglio d’Europa).
La scusa per questo sabba è parlare di U.N.I.Re, un’associazione di università italiane che da dieci anni si genuflettono di fronte all’obbrobrio della Convenzione di Istanbul, andando a caccia di denari con varie iniziative da turbo-femminismo spinto, tipo premiare le tesi di laurea sull’empowerment femminile e simili. Ma è solo un pretesto: alle inutili iniziative di U.N.I.Re. viene dedicata a malapena l’ultima ora di convegno, con vari docenti che si inseguono in interventi di otto miseri minuti ciascuno per dire alla città e al mondo quanto siano stati zelanti a diffondere la grande menzogna a livello accademico. L’obiettivo del mega-convegno però è un altro e va ben oltre le performance servili di taluni atenei italiani. L’obiettivo reale è riconfermare con forza il valore della Convenzione di Istanbul e tutto ciò che ne discende, specie ora che le sono arrivate addosso tre cannonate, ovvero il ritiro di Polonia e Turchia e il rifiuto della ratifica da parte dell’Ungheria. E poco conta che due nuovi paesi abbiano chiesto di entrare nella convenzione, come viene sottolineato in un punto del convegno: si tratta di Tunisia e Kazakistan, e con ciò tutto prende una sfumatura quasi comica (vi è venuto subito in mente Borat con le femministe, vero?). Il vero problema è che la grande orgia di soldi e potere rischia di perdere la sua giustificazione internazionale, ed ecco perché due ore e mezza del totale sono dedicate a declinare tutti i peggiori luoghi comuni del femminismo suprematista.
Un copione usuale.
È davvero difficile sintetizzare un così lungo rosario di sciocchezze e bugie. Invitiamo tutti a guardare il video, saltando random qua e là e soffermandosi qualche minuto. Difficile non imbattersi in una lunga serie di forzature, stupidaggini, mistificazioni, falsità e strumentalizzazioni. Valeria Valente la fa da padrona: nell’introduzione snocciola senza vergogna tutto il repertorio ben noto, messo lì in apertura per accreditare ab initio tutto il resto. Nel suo discorso c’è una sola novità degna di nota: svela che la sua Commissione contro il non-si-sa-ancora-cos’è (cioè il “femminicidio”) aveva convocato l’ambasciatore turco per protestare contro la scelta di Ankara di uscire dalla Convenzione di Istanbul, ma il diplomatico manco gli ha risposto. Tale è l’autorevolezza della Commissione stessa, col suo viziaccio di impicciarsi di questioni che non la riguardano, dalle sentenze della magistratura agli affari esteri. Non sono da meno gli altri interventi: la Bonetti, con una retorica uguale al famoso politico di Verdone («sempre teeeso»), tra una «resilienza» e un «fare rete», esprime gli stessi concetti di Michela Murgia («la violenza contro le donne non sono singoli fatti ma un processo»), si schiera pugni sui fianchi contro la “PAS” e ovviamente auspica nuove risorse per i centri antiviolenza, lei che ha regalato ben trenta milioni di euro mentre l’Italia soffocava per il covid. La Lamorgese si limita a leggere gli appunti con scarsa convinzione, è lì perché deve dire cosa ha fatto per essere conforme alla Convenzione e fa l’errore di citare la app YouPol in connessione con le “violenze durante il lockdown”. Probabilmente ignora il fatto che abbiamo chiesto a lungo i dati registrati dalla app stessa e che la sua Polizia, dopo una prima disponibilità, ci ha risposto che “non può” fornire i dati. Probabilmente perché le chiamate sono state pochissime e la cosa non fa gioco alla mega-truffa dei dati non verificati del 1522.
Il ministro Messa (Università) fa un intervento sbiadito, parla di stereotipi da scardinare e auspica meccanismi di premialità per docenti e allievi che si impegnino in quel senso. In pratica abbraccia in toto la filosofia fascista del progetto “Youth for Love” di cui abbiamo parlato di recente. La Buric (Consiglio d’Europa) s’arrangia con un discorso generico, da cui trapela il terrore che il suo fiore all’occhiello, la Convenzione di Istanbul, crolli in pezzi. Notevole la Sen. Rizzotti, membro della Commissione Femminicidio: per potersi mostrare più femminista che mai, si lancia in dichiarazioni gonfie di una sbalorditiva islamofobia. La Sen. Lanzoni, membro del famigerato GREVIO (un’accolita del Consiglio di Europa che monitora quanto e come gli stati si sottomettano alla Convenzione di Istanbul), è poi l’unica, tra le tante sciocchezze, a dedicare un pensiero agli uomini, ma solo per dire che sì, anche loro subiscono violenze, ma meno gravi e meno spesso, quindi si può tranquillamente sorvolare, secondo il vergognoso schema discriminatorio ormai istituzionalizzato di cui, di nuovo, abbiamo parlato di recente. La Sen. Leone favoleggia poi di «intelligenza emotiva» da acquisire «tramite l’educazione emozionale», mentre l’ex onorevole Nicoletti, unico uomo della ghenga, sentenzia, in linea con lo spirito della Convenzione, che la violenza sulle donne (e solo quella) non è un fatto privato ma «appartiene alla sfera pubblica». Valeria Fedeli mostra la medaglia della grande porcata, ossia la “Buona Scuola”, approvata quand’era ministro dell’Istruzione per dare spazio agli «studi di genere come strumento scientifico» e, aggiungiamo noi visto che lei non ha il fegato di dirlo, anche alla dottrina gender dagli asili in su. Non manca poi Linda Laura Sabbadini, che tra errori grammaticali («bisogna che gli stati assumino…») e buffi svarioni dislalici («stereopiti», detto tre volte), ci informa che il “Woman 20” da lei presieduto sta stendendo una lista di 100 donne fondamentali nella storia da inserire a forza nei libri (e ci vogliono i 20 stati più potenti della terra per trovarle…), e che chiederà al G20 di porre come priorità la violenza di genere (intesa ovviamente solo come unidirezionale dagli uomini contro le donne).
Una rabbia sorda davvero difficile da esprimere.
Questi sono solo piccoli assaggi delle innumerevoli chicche sfornate in tre ore e mezza di un convegno online che, per livello di inclinazione ossessiva alla mistificazione, può tener testa a una riunione di terrapiattisti. Solo che le teorie femministe sono un complottismo che ce l’ha fatta, ha raggiunto il massimo effetto e i massimi livelli delle istituzioni. A dimostrarlo sono i due interventi più sconcertanti, quello della Casellati, Presidente del Senato, e quello della Cartabia, Ministro della Giustizia. La prima legge il gobbo, si vede chiaramente. E lo legge senza chiedersi minimamente se ciò che dice sia tutto vero. Ecco allora che la seconda carica dello Stato ti spara in faccia impunemente, in apertura, concetti tipo che le donne vivono una «realtà quotidiana fatta di discriminazione, solitudine e dolore». Ma è solo l’inizio, il repertorio c’è tutto: «una donna ogni tre giorni è vittima di femminicidio». «Per nove donne su dieci l’assassino è in casa». «Mattanza domestica». «Inferno privato». «La casa trasformata in una prigione». Una retorica che non stupirebbe in bocca a una Valeria Valente, ma qui stiamo parlando della Presidente del Senato. O meglio della sua ghost-writer, che probabilmente ha rielaborato una velina proveniente dalla Commissione Femminicidio. Da cittadini ci attenderemmo che una così alta carica istituzionale verificasse le informazioni che le danno da leggere, ma probabilmente ha prevalso la fiducia nella sorellanza. Quel tipo di fiancheggiamento di cui abbiamo parlato di recente e a cui anche la seconda carica dello Stato pare incapace di sottrarsi. Mentre tutti gli altri interventi suscitano un misto tra meraviglia (per le facce toste) e divertimento, a seconda dei casi, quello della Casellati suscita indignazione e un potente sconforto civico. Ma può esserci di peggio, e in effetti c’è.
L’intervento della Cartabia è due volte sconcertante. In primo luogo per l’aura da sublime giurista di altissimo livello che la circonda, da cui dunque ci si dovrebbe aspettare un rigore straordinario e per cui in verità nutrivamo qualche speranza di oggettività. In secondo luogo perché il ministro presiede il dicastero che contiene in sé la fetta più grande della verità dei fatti: i dati. Vengono i brividi, dunque, a sentirla parlare di aumento delle denunce durante il lockdown, quando lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura (dunque un organo di casa Cartabia) ne ha certificato il dimezzamento. Non solo: nel suo ruolo dovrebbe sapere che il numero di denunce non è indicativo di nulla (anzi) e che a contare sono le sentenze, materia del suo Ministero. Dovrebbe rivendicarlo, eppure non lo fa. Ciò che fa è stare al gioco generale, confondendo “violenza di genere” e “violenza domestica”, citando il solitario caso Talpis e la sanzione della CEDU all’Italia ma ignorando le innumerevoli sanzioni per il mancato rispetto nei tribunali del principio di bigenitorialità. Anzi, a buon peso cita le posizioni del GREVIO come riferimento per le prassi separative, anche se se si tratta delle stesse posizioni, per intenderci, di Claudio Foti, “il guru di Bibbiano”. Auspica infine un maggiore coordinamento tra sezioni civili e penali dei tribunali, affinché eventuali denunce per violenza abbiano immediate ricadute sui procedimenti civili di separazione. Poco le importa evidentemente che il 90% di quelle denunce poi finisca in niente (il coordinamento penale/civile servirebbe anzi per avere una misura precisa del fenomeno delle false accuse). Non un ministro della Giustizia, dunque, ma al massimo la longa manus del femminismo suprematista internazionale e nazionale dentro un meccanismo cruciale per il sistema. Una roba da brividi, che ci ha sconcertati, indignati e, sì, riempiti di una rabbia sorda davvero difficile da esprimere.
Siamo in grave pericolo.
Non ci fosse stato l’intervento della Cartabia, tutto il convegno alla fine poteva essere archiviato come una delle tante riunioni di “Non Una di Meno”, solo più ordinata e paludata, e alla fine seppellito dalla stessa risata che si riserva ai seguaci delle più bislacche teorie complottiste. Unico motivo di preoccupazione potevano essere i molti denari rubati alla comunità e lo schifoso circuito di piccoli e grandi spazi di potere, conquistati attraverso una menzogna troppo grande per poterla nascondere con efficacia. Anzi gli alti lai di dolore e di ribellione levati per una Convenzione criminogena che vivaddio cade sempre più a pezzi potevano essere musica per le orecchie di chi lavora per il tramonto del dilagante regime femminista e queer. L’inerzia della Casellati prima e il netto schieramento della Cartabia poi, però, trasformano l’intera buffonata nella preoccupante prova di una distopia gigantesca e potentissima che si afferma e si estende sempre di più, tenuta a freno a fatica da una resistenza troppo sparsa e sempre troppo blanda rispetto al necessario. Quando un ministro della Giustizia, eminente giurista, parla di denunce come se fossero condanne, siamo a tutti gli effetti oltre ogni possibile goliardata, grumo d’interessi o gioco di potere. Siamo nel campo dell’ideologia tossica che si fa agenda politica, che a sua volta si fa Stato. Siamo cioè tutti, uomini e donne, in grave pericolo, per l’oggi e ancor più per il domani. Non si deve perdere la speranza di scardinare questo male, non si deve smettere di combatterlo, ma serve anche piena coscienza del pericolo che stiamo correndo. Il convegno online del Senato sui dieci anni della Convenzione di Istanbul ne dà la più esatta misura.