Al cuore del “fenomeno transgender” moderno c’è una tesi ben precisa: quella secondo cui le condizioni mentali note come “disforia” e “incongruenza” di genere implichino l’esistenza di una caratteristica intrinseca all’umano, la “identità di genere” ossia una certa essenza sessuata, oggettiva ma allo stesso tempo non misurabile né rilevabile in alcun modo tramite mezzi empirici, e unicamente attestabile dalla “esperienza vissuta” del soggetto; innata e immutabile, ma allo stesso tempo fluida e addirittura “performativa”; evidente e percepita dal soggetto fin dai 2 anni di età o anche prima, ma allo stesso tempo a volte latente al punto che un soggetto può scoprire la propria identità di genere in adolescenza o in età matura, anche dopo aver messo su famiglia e fatto figli (ma era comunque lì fin dall’inizio, innata e immutabile); secondo alcuni, più retrivi, binaria (maschile/femminile) come il sesso, secondo altri, più progressisti e inclusivi, composta di uno “spettro” o “continuum” di infinite possibilità, tra cui le “identità non binarie” e quelle legate a archetipi animali (“identità therian”). In alcuni casi questa essenza metafisica sarebbe, per grazia ricevuta, corrispondente in modo armonioso al corpo del soggetto; in altri casi sarebbe per qualche arcano e inspiegabile motivo differente e disallineata rispetto al corpo, e in questi casi si parla di “incongruenza” di genere, oppure “disforia” se tale disallineamento comporta uno stato di sofferenza.
Per riallineare tale caratteristica al corpo di nascita (o, come preferiscono dire i più radicali, al “sesso convenzionalmente assegnato” alla nascita) l’unica strada possibile sarebbe la “affermazione di genere” (un tempo nota come “cambio di sesso” – se non che il sesso non si può cambiare), considerata l’unico intervento empatico, “salvavita” e rispettoso de “idiritti”. Mentre suggerire strade alternative come una terapia che punti a riarmonizzare gli stati psicologici ed emotivi del soggetto col proprio corpo costituiebbe un’atroce violenza contro le “identità trans” e un ritorno alle “terapie di conversione” di chi un secolo fa voleva “guarire” gli omosessuali, oltre che una profonda violazione della dignità umana e de “idiritti” fondamentali dei “soggetti trans”. I proponenti di questa tesi, estremamente forte e composita come si è visto, fanno di tutto per non presentarla come teoria o ideologia, ma piuttosto come se fosse la pura e semplice realtà dei fatti e della natura umana, una caratteristica oggettiva e autoevidente dell’universo in quanto tale: per questo cercano ad ogni costo di non designarla mai con un nome specifico; anzi, dicono, chi parla di “teoria gender” è un reazionario neo-cattolico di estrema destra, che si è inventato una teoria complottista per opporsi alla salvaguardia e all’avanzamento de “idiritti”, tra cui quello di “essere veramente sé stessi” (diritto salvaguardato a suon di interventi farmacologici e chirurgici che vanno a modificare artificialmente e irreversibilmente il proprio corpo: una logica stringente).
Il crescente fenomeno dei “detransitioner”.
Nulla di tutto ciò. Si vuole semplicemente fare delle riflessioni sulla tesi testé enunciata, che è esattamente ciò che professano gli attivisti arcobaleno; ma per poterne discutere bisogna potervisi riferire senza doverla enunciare per intero ogni volta, perciò si usa la formula abbreviata di ideologia o teoria “gender”, essendo il “genere” l’argomento al cuore di essa. Se non vi piace questo nome, possiamo dire chiamarla “teoria Pipper” o “teoria Pluter”, ma la sostanza non cambia, né il fatto che sia ormai smentita da ogni lato da abbondante evidenza scientifica ed empirica. Abbiamo già discusso in altre occasioni l’aspetto dell’uso di ormoni bloccanti della pubertà e della chirurgia affermativa precoce in soggetti minorenni, da più parti segnalato come fenomeno recentissimo, inesistente anche solo qualche decennio fa, probabilmente ascrivibile ai meccanismi del contagio sociale, e la cui efficacia terapeutica, innocuità e reversibilità è smentita ormai da molte importanti reviews come quella effettuata sotto la supervisione della Dr.sa Hilary Cass per il National Health Service del Regno Unito, e dal crescente movimento dei detransitioners, cioè soggetti che si pentono del percorso farmacologico/chirurgico intrapreso.
Merita segnalare in questo senso una voce emersa di recente, quella di Jamie Reed, professionista del settore, responsabile del primo accesso della clinica di medicina transgender dell’ospedale pediatrico di St. Louis. La sua testimonianza sta avendo una forte risonanza: forse perché lesbica, e sposata a un “uomo trans” (cioè donna), Tiger Reed, che qualche mese fa ha annunciato la sua de-transizione dopo 13 anni di “terapia affermativa”; forse perché, per sua stessa ammissione, la Reed solo qualche anno fa credeva fermamente nella “terapia affermativa” per i minori. Ma le esperienze avute negli anni di pratica con gli “adolescenti trans” le hanno fatto cambiare idea, fino a decidere di lasciare la clinica nel novembre 2022. Da allora fa parte della LGBT Courage Coalition, un’associazione di “adulti LGBT” che conduce una battaglia contro la “affermazione di genere” in bambini e adolescenti, e diffonde la propria testimonianza affinché politica e istituzioni possano aprire gli occhi.

Il pericolo del contagio sociale.
Una sua audizione di qualche giorno fa al parlamento del Wisconsin, in favore di un decreto legge atto a proibire le “pratiche affermative” sui minori, sta facendo il giro del mondo. «Fino a poco tempo fa ero una vera credente, nel modo più assoluto» ha testimoniato Reed, «facevo formazione ai magistrati e ai miei colleghi in merito alla “terapia affermativa”. Ma questo protocollo, lo stesso suggerito dal DSM, in cui avevo piena fiducia, si basa su stereotipi retrivi ed è intrinsecamente omofobico. Dei primi 70 adolescenti che abbiamo trattato con l’approccio affermativo, 68 erano omosessuali: la diagnosi di incongruenza di genere si fonda sugli stereotipi prevalenti sul comportamento sessuale, e spesso gay e lesbiche in adolescenza mostrano comportamenti non conformi a quegli stereotipi. Di questi 70 giovanissimi pazienti, uno ha perso la vita, a causa del protocollo stesso: per costruire una neovagina in un adulto normalmente si usa la pelle del pene; ma gli ormoni bloccanti della pubertà bloccano la crescita del pene, perciò si è costretti a usare materiale estratto dal colon. Il paziente in questione ha perso la vita a causa di una massiccia infezione contratta durante la rischiosa operazione.
Negli anni di pratica clinica ho assistito a un incremento degli accessi da 4 al mese, e pressoché tutti ragazzi, a 50-60 accessi al mese, di cui l’80% erano ragazze. E cos’hanno in comune le adolescenti? Sono spesso estremamente vulnerabili al contagio sociale. Venivano tutte letteralmente a raccontarci la stessa medesima storia, copiata da video visti sui social che spiegano cosa vuol dire essere un “giovane trans”. Il protocollo affermativo che seguivamo ha cagionato danni fisici ai miei pazienti, al punto che è capitato di aver dovuto sottoporre a chirurgia d’urgenza alcuni di essi perché la loro vagina si era lacerata durante la prima esperienza sessuale. Abbiamo rimosso il seno a una ragazza che pochi mesi dopo ci ha ricontattati disperata, chiedendo di poterlo riavere. Non era soltanto il desiderio di de-transizionare e tornare a presentarsi come donna: era anche incinta. Ed è stata lei stessa a dirci di essere stata vittima di un contagio sociale. Ho dovuto cambiare idea su tutto questo, perché da un punto di vista morale non ci sono alternative». Merita leggere la sua storia per intero, diffusa nel 2023 in un articolo dal titolo “Ero convinta di salvare la vita ai bambini trans”.