Molti sono convinti che la “affermazione di genere” sia sconsigliabile per i più giovani in quanto soggetti ancora in via di sviluppo, e non pienamente in grado di comprendere la portata di conseguenze come la medicalizzazione perpetua, la possibile infertilità, l’incapacità di provare orgasmi, la necessità di continui interventi di manutenzione o correttivi eccetera, e pertanto incapaci di fornire un consenso pienamente consapevole e informato su pratiche così invasive. Ma, per contro, molti pensano che sia una pratica accettabile se invece si tratta della cura di persone adulte, mature e consapevoli, che si trovino in condizione di acuta sofferenza a causa della “disforia di genere”. In fondo quello alla salute è un diritto, e che si creda (senza nessuna prova empirica ovviamente, per pura fede nella teoria gend…ehm, Pipper) nell’esistenza di una innata e metafisica “identità di genere” e di soggetti “intrinsecamente transgender”, o piuttosto la si veda come una condizione di salute mentale, se si può fare qualcosa per migliorare il benessere di qualcuno, ben venga. Ebbene, non è proprio così: il re è nudo, anche per quanto riguarda gli esiti della “affermazione di genere” negli individui adulti.
Pochi tra i non addetti ai lavori ne hanno consapevolezza, ma il cosiddetto “protocollo olandese”, cioè il protocollo che prevede l’uso degli ormoni bloccanti per interrompere la pubertà e consentire così una “transizione di genere” più piena e completa, fu ideato da alcuni studiosi negli anni ’90 in via sperimentale proprio perché la “terapia affermativa”, il “cambio di sesso”, non sembrava produrre gli effetti sperati di miglioramento della qualità della vita nei soggetti adulti. Si osservava piuttosto un peggioramento medio delle condizioni di salute fisica ma anche psicologica complessiva. Si ipotizzò che ciò fosse dovuto al fatto che il corpo, attraversata la pubertà, acquisisce in modo pienamente maturo tutti quei caratteri sessuali secondari che provocano sofferenza nei soggetti con “disforia” (in quanto segnali evidenti di una realtà corporea disallineata con l’“identità di genere” percepita dentro di sé) e a causa di questo ostacolo, le procedure cosmetiche di “cambio di sesso” non riescono a produrre un effetto convincente. Si pensò quindi che arrestando il corso normale della pubertà, si potesse intervenire su corpi non ancora chiaramente marcati dai caratteri sessuali secondari, e ottenere così un risultato finale più vicino a quello desiderato.
Gli effetti indesiderati.
Le prime sperimentazioni sul “protocollo olandese” furono un mezzo disastro, ma ormai qualcuno aveva sentito l’odore di nuovi potenziali mercati (qui un esauriente articolo sulla storia e la teoria del “protocollo olandese”, a firma di Michael Biggs, uno dei primi whistleblowers le cui rivelazioni portarono allo “scandalo” e alla chiusura della clinica gender dell’Istituto Tavistock). Così nel giro di un paio di decenni la “medicina transgender” – mercé la diabolica aggiunta del “TQ+” all’attivismo “LGB”, l’uso dei social media per diffondere l’idea tra i giovanissimi, e un ingente flusso di danaro da parte di soggetti interessati a spingere questa nuova “condizione naturale e intrinseca all’essere umano” (e relativi “idiritti” fondamentali da salvaguardare) – da un ambito clinico con pochissimi pazienti e pressoché tutti uomini, si è trasformata nel tritacarne odierno dove si riscontrano aumenti di richieste nell’ordine delle migliaia di punti percentuali e perlopiù da parte di ragazze giovanissime, pronte a offrirsi in sacrificio al culto gender. Ma nel frattempo il corpo di ricerche sulla qualità della vita dei soggetti “trans” adulti dopo la transizione ha continuato a crescere e consolidarsi. È appena uscito uno studio dal campione molto ampio che conferma in modo decisivo il dato già noto al tempo dell’ideazione del “protocollo olandese”: la transizione chirurgica nel soggetto maggiorenne o adulto non ne migliora la condizione di salute fisica e mentale complessiva.
Analizzando i dati di oltre 107.000 soggetti maggiorenni con diagnosi di disforia di genere (tra 2014 e 2024), gli studiosi hanno confrontato l’occorrenza di depressione, ansia, suicidalità e abuso di sostanze in coloro che hanno ricevuto la chirurgia affermativa, rispetto all’occorrenza degli stessi problemi in coloro che non l’hanno ricevuta. Visto che il disagio mentale delle persone “trans” è dovuto unicamente alla cattiveria della società patriarcal-etero-cis-normativa e non agli effetti della chirurgia affermativa, che anzi riallinea il corpo del soggetto con la sua “identità di genere” innata e metafisica e pertanto è un intervento “salvavita”, sarebbe logico aspettarsi un rischio di disagio mentale molto più basso, o perlomeno dello stesso livello, in quest’ultima categoria di soggetti. La ricerca ha riscontrato esattamente l’opposto: coloro che hanno ricevuto la chirurgia affermativa sono a rischio significativamente più elevato di depressione, ansia, suicidalità e abuso di sostanze. Ma, si dirà, confrontare chi ha affrontato la transizione chirurgica con chi non l’ha affrontata non è corretto, perché probabilmente saranno i soggetti con disforia più severa e quindi a prescindere con una condizione di sofferenza maggiore.

Le ricerche tombali.
Ipotesi smentita da una analisi di oltre 100 studi longitudinali (che cioè confrontano gli stessi soggetti prima e dopo una certa variabile, in questo caso la chirurgia affermativa) su soggetti adulti, condotta dalla Aggressive Research Intelligence Facility dell’Università di Birmingham (che svolge review di trattamenti sanitari per conto del National Health Service britannico, non esattamente un covo di attivisti reazionari neo-cattolici di estrema destra): «nessuno degli studi valutati fornisce evidenza di alcun beneficio apportato ai pazienti dalla transizione di genere»; dato confermato anche da una simile review condotta dai Centers for Medicare and Medicaid Services dell’amministrazione Obama (di nuovo, non proprio un covo di neo-cattolici di estrema destra e di certo non accusabile di “transfobia”), come emerge dalle conclusioni espresse nel memo finale di agosto 2016 (sez. A “Quality of the studies reviewed”). Una pietra tombale sulla teoria gend…ehm, Pluter la caliamo con uno studio effettuato in Svezia (paese tradizionalmente favorevole alle istanze arcobaleno) pubblicato nel 2011, uno dei più rigorosi e su più ampio periodo (30 anni) attualmente disponibili, discusso anche nel memo appena citato: che ha documentato come i soggetti con chirurgia affermativa fossero a rischio di suicidio aumentato di ben 19.1 volte rispetto ai soggetti senza chirurgia, 2.8 volte più a rischio di ospedalizzazione per motivi psichiatrici, e 2.5 volte più a rischio di neoplasie e malattie cardiocircolatorie.
Ma, cosa forse ancora più rilevante e sottolineata dagli stessi ricercatori, l’aumento nella mortalità (in buona parte dovuta alla suicidalità) registrato tra i pazienti con transizione chirurgica è stato osservato dopo circa 10 anni. Questo smentisce definitivamente l’idea che la chirurgia affermativa sia l’intervento più adatto, efficace e “salvavita”, anche per i soggetti adulti. È noto che all’intervento segue una fase “luna di miele” che dura in media 7-8 anni: ma esaurita la “gender euphoria”, l’“euforia di genere”, il soggetto si ritrova il corpo artificialmente modificato in modo irreversibile, mutilato, spesso reso infertile o incapace di provare orgasmi, con la necessità di continui interventi di manutenzione o correttivi; e però, con la stessa sofferenza psicologica di prima, se non più intensa, alimentata dalla condizione complessa, delicata e irreversibile in cui si viene a trovare. Sofferenza che un approccio diverso, forse meno redditizio per l’industria della medicina transgender, ma più empatico, caritatevole e umano, come una terapia indirizzata sulle ragioni intime e profonde del disagio del soggetto specifico con il proprio corpo (e sul trattamento di eventuali comorbidità), avrebbe potuto invece contribuire a placare in modo più efficace e duraturo. Salvaguardando realmente il diritto di questi soggetti di “essere veramente sé stessi”.