Di recente è fuoriuscito per vie traverse dal Senato la bozza di un nuovo documento a cui starebbe lavorando la famosa (o famigerata) “Commissione femminicidio”. Quella, per intenderci, presieduta dalla senatrice Valeria Valente e che nemmeno su richiesta esplicita è in grado di dare una definizione stabile e circostanziata di cosa sia un “femminicidio” né di fornire conseguentemente un elenco dei casi ricadenti nella fattispecie. Con questo popo’ di biglietto da visita, dopo aver fatto danno un po’ su tutto il panorama delle relazioni uomo-donna, la Commissione pare stia lavorando a un documento relativo agli “uomini maltrattanti”. Leggete bene, la grafica potrebbe ingannare: non si parla di uomini “maltrattati”, che subiscono maltrattamenti, bensì “maltrattanti”, participio presente, inteso come: “uomini che maltrattano”. Relativamente a questo tema la Commissione sta lavorando su un dossier che al momento ammonta alla bellezza di 50 pagine (potete scaricarlo qui, con le nostre evidenziature e note) e che si presume, una volta completato, verrà presentato a Parlamento e Governo.
Ha senso scorrerlo e sottolineare quali siano i suoi contenuti? In realtà no. Non c’è assolutamente nulla di nuovo o di sorprendente in quel documento. È uno strumento di purissima ideologia femminista (tanto da citare l’esecrabile “Modello di Duluth” come riferimento) pensato espressamente per orientare la produzione legislativa ed esecutiva del nostro paese. Un paper puramente ideologico, insomma, con tutti i crismi e i settarismi del caso. Il postulato è e resta quello di sempre: solo gli uomini sono violenti e abusanti, solo le donne (ed eccezionalmente i bambini) sono vittime. A partire da questo postulato, il dossier non fa che declinare i luoghi comuni più noti (corsivi sempre nostri): «La violenza maschile contro le donne rappresenta un fenomeno strutturale, con radici profonde, che ancora oggi permeano le relazioni tra uomini e donne, determinato e alimentato dallo squilibrio nei rapporti di potere tra donne e uomini». Questo è l’incipit che annuncia il tono di tutto il susseguente minestrone, composto da “superamento degli stereotipi di genere”, “cultura patriarcale”, “priorità ai riscontri riferiti dalle donne”, ed esclusione netta, già in premessa, di ogni altro tipo di violenza o abuso. È escluso, senza se e senza ma, che ne esistano di altri tipi ed è assunto in premessa che l’unica esistente, quella maschile contro le donne, sia una emergenza nazionale.
La rieducazione di tutti gli uomini.
Che non lo sia affatto lo dicono le statistiche europee, e il dato, sebbene ben nascosto, è reperibile anche nelle statistiche nazionali semplicemente comparando il numero di denunce presentate e quello delle sentenze di colpevolezza, integrate dal profluvio di assoluzioni per false accuse registrate sui media (che per altro rappresentano la punta dell’iceberg). Anche su questo il documento non ha dubbi: cita denunce e ammonimenti come fossero sentenze di colpevolezza emesse oltre ogni ragionevole dubbio e archivia il dilagante fenomeno delle false accuse come un’istanza vittimistica proclamata dagli uomini violenti che non vogliono ammettere di essere violenti (in situazioni specifiche ma anche per loro stessa natura). L’istinto aggressivo maschile assurge così a problema pubblico, da affrontare con strumenti pubblici e con una pervasività degna di uno stato totalitario. Il dossier esprime l’auspicio di un intervento di prevenzione e monitoraggio che si insinui in tutte le pieghe della vita privata dei cittadini, nella scuola («meglio se dalla prima infanzia») come nei rapporti di coppia, nelle relazioni lavorative, nello sport o nelle attività ludiche. L’idea del pericolo connesso alla natura violenta del maschile deve insomma permeare tutta intera la società, come accadeva con l’idea della purezza della razza nella Germania del Terzo Reich. Ed esattamente come quest’ultimo, il documento ha lo scopo di suggerire una “soluzione finale” al problema, meno cruenta (forse) ma non meno disumana.
La parola chiave è “rieducazione” e la giustificazione sono da un lato la Convenzione di Istanbul e dall’altro esperienze di settore già fatte all’estero. Si riconoscono così tre livelli di intervento: il più grave e urgente, verso chi ha già commesso violenze ed è stato per questo condannato. La rieducazione per costoro dev’essere radicale e la più forzosa possibile, fino a subordinare la concessione di eventuali benefici di legge alla frequentazione di specifici corsi “rieducativi”. A un livello intermedio ci sono quegli uomini che ancora non hanno commesso violenza, ma a causa di frustrazioni o insoddisfazioni danno segnali di poterci arrivare. Per costoro, con il monitoraggio sociale che si è detto, scattano i meccanismi di induzione all’autocoscienza: tutti devono essere impegnati a convincere costoro a prendere atto di essere dei potenziali violenti e dunque a seguire un corso di “rieducazione” che insegni loro a non essere possessivo, patriarcale, oppressivo, eccetera. Si arriva così al livello base, quello che riguarda indistintamente tutti gli uomini che, in quanto tali, sono tutti dei violenti. Non manifestandosi apertamente, essi sono i più pericolosi, perché la loro furia distruttrice può scatenarsi in modo inatteso. È in questo punto che il documento assume una piega staliniana, quando dice che il monitoraggio è in capo a tutti. I nostri conoscenti, i vicini di casa, le maestre dei nostri figli, il nostro medico di base, la persona che incontriamo ogni giorno sul tram, tutti devono diventare le sentinelle dell’abuso, gli spioni del maltrattamento, i delatori della violenza ovunque gli sembri (o gli convenga) di vederla in qualunque persona di sesso maschile.
Registrare e testimoniare.
Ma cosa c’è veramente dietro tutto questo ammasso di odio e pregiudizio antimaschili, trapelato e scoperto proprio a ridosso della Giornata internazionale dell’Uomo? Anche qui niente di nuovo. Anzi quasi niente di nuovo. Da un lato infatti il dossier della Commissione afferma che la rete dei “centri per uomini maltrattanti”, che dovrebbe occuparsi di prevenzione e rieducazione, ad oggi disarticolata, sparsa e del tutto priva di regole, dovrebbe essere riccamente sostenuta da denaro pubblico. Gira e rigira, le cinquanta pagine sempre lì vanno a finire. Ma non solo: altro elemento consueto è l’auspicio di un inasprimento delle politiche repressive (e oppressive) indirizzate al genere maschile, con l’eliminazione di ogni possibile ostacolo. Ad esempio si auspica una veloce approvazione della legge che legalizza la manipolazione delle statistiche sul tema, e che non stupirebbe se venisse approvata in ultima istanza alla Camera proprio il 25 novembre, come capitato già in prima lettura al Senato l’anno scorso. La vera novità, però, è nascosta tra le righe e si connette direttamente alla questione soldi e potere: i centri per uomini maltrattanti infatti si sono sviluppati in gran parte autonomamente dai centri antiviolenza, non di rado, in alcune zone, andando a contendere a questi ultimi risorse pubbliche, relazioni con le istituzioni e ruoli funzionali. In vista dell’arrivo dei miliardi del recovery fund, questa divaricazione necessita di una conciliazione e pare essere questo l’obiettivo ultimo del dossier, con cui la “Commissione Femminicidio” traccia la rotta per un riconoscimento ufficiale dei “centri per uomini maltrattanti”, una loro regolamentazione, un loro finanziamento, ma il tutto sotto il coordinamento dei centri antiviolenza territoriali di riferimento, il cui sistema pare dunque mantenere saldamente il proprio posto di burattinaio al di sopra della congrega della Valente e della sua Commissione.
Dal lato nostro non c’è molto da dire, in particolare su questa querelle riguardante due entità, i “centri per uomini maltrattanti” e i centri antiviolenza, che a nostro avviso andrebbero o regolamentati strettamente e aperti indistintamente a ogni categoria, o molto più semplicemente sciolti, con riacquisizione delle loro funzioni da parte di soggetti pubblici (ad esempio ASL e consultori). Ma non c’è molto da dire in ogni caso su tutta la linea che ispira l’intero documento della “Commissione femminicidio”. Noi parliamo essenzialmente, anche se non solo, in rappresentanza di coloro che sono l’oggetto, anzi il bersaglio delle sue riflessioni. Siamo spettatori passivi di una messinscena dell’orrore dove le malefatte di qualche migliaia di uomini, per altro in buona parte non italiani, pone milioni di uomini, fidanzati, compagni e mariti dediti, leali e rispettosi, nonché spesso padri amorevoli, assidui e protettivi, all’altro capo di un dito istituzionale accusatoriamente puntato contro il loro torace. Noi, arrivati a questo punto, non troviamo più molto senso nel demistificare, contestare, contro-argomentare: il processo è avviato e non è più arrestabile, dunque riteniamo doveroso semplicemente registrare e testimoniare tutti i passi fatti verso una deriva orientata alla persecuzione e distruzione delle capacità relazioni tra uomini e donne attraverso soprattutto (ma non solo) l’annientamento del maschile. Quali siano le cause e gli scopi di questa deriva l’abbiamo detto e argomentato più volte, senza che ciò spingesse a coagulare forze collettive o stimolare singoli individui capaci di porsi come argine. Non resta dunque, da soggetti passivi e bersagli, che registrare e testimoniare quanto via via accade, allo scopo di dare strumenti di comprensione a chi, in un futuro remoto, vorrà studiare e spiegare i motivi di quella che è un’irrefrenabile involuzione sociale e del conflitto che inevitabilmente ne dovrà seguire.