La Fionda

Commissione Femminicidio: il nuovo report non scioglie i dubbi (2)

Come annunciato lunedì, entriamo ora nel merito dei dati analizzati e delle riflessioni che ne derivano presenti nella recente relazione “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia“, prodotta dalla Commissione Femminicidio. “ANALISI STATISTICA – allo scopo di selezionare e individuare il numero dei femminicidi, cioè degli omicidi di donne uccise in quanto donne , la Commissione ha acquisito dai distretti di Corte d’Appello copia dei fascicoli processuali, ivi comprese le sentenze, di tutte le uccisioni volontarie (omicidi) di donne commesse negli anni 2017 e 2018. Per il biennio esaminato la Commissione, sui fascicoli considerati femminicidio in quanto uccisioni di donne perpetrate da uomini per ragioni di genere, ha condotto anche indagini di tipo statistico” (…) Il numero di casi che la Commissione ha ritenuto potenziali femminicidi si è attestato a 211. I procedimenti penali definiti con sentenza di assoluzione dell’autore sono pari a 19 su 211. Questi verranno analizzati nel dettaglio nella parte finale. L’analisi a seguire fa dunque riferimento a 192 casi di femminicidio (di cui 81 nel 2017 e 111 nel 2018)”. Notare: la Commissione ha ritenuto potenziali femminicidi. Le parole hanno un senso, scrivere che la Commissione “ha ritenuto” esprime un parere soggettivo, mancando del tutto il criterio oggettivo al quale un episodio debba rispondere per essere classificato come femminicidio. Inoltre i femminicidi sono “potenziali”, quindi potrebbero esserlo ma non è detto che lo siano davvero.

Nella prima parte abbiamo visto come venga chiarito più volte che diverse definizioni si affollano confusamente ed ufficiosamente per definire il femminicidio o tentare di farlo, tuttavia sarebbe lecito attendersi una definizione certa da parte della Commissione appositamente costituita. Non è compito della Commissione definire ufficialmente il fenomeno del quale si occupa, prima di analizzare statisticamente qualcosa che non è nemmeno in grado di definire? L’indagine comunque si basa su 192 episodi che vengono analizzati, suddivisi e catalogati sotto diversi aspetti. Prima osservazione: 192 casi in due anni sono circa la metà di quanto propagandato ossessivamente da più fonti: “un femminicidio ogni due giorni” è lo slogan più frequente; è molto usato anche “uno ogni tre giorni” o “uno ogni 72 ore”, ma non manca chi si spinge anche oltre, molto oltre, arrivando a “un femminicidio al giorno”, “due al giorno”, “tre al giorno”. La forbice è ampissima e arriva fantasiosamente a decuplicarsi, oscillando da meno di 100 casi a più di 1.000 ogni anno. Ampia anche la rosa delle fonti, in merito si esprime chiunque, dai media alla polizia, dai giornalisti ai personaggi dello spettacolo e ovviamente la gente comune sui social.

opinioni femminicidi

Non è per nulla una questione di “potere maschile”.

Tutti i femminicidi esaminati si connotano per due requisiti costitutivi: il criminale di genere forma la sua identità su una relazione di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve a riaffermare e confermare il suo potere; la donna che decide di interrompere quella relazione viene uccisa perché, in molti casi, sottraendosi ai doveri di ruolo, non solo viola una regola sociale e culturale, ma rende l’uomo che glielo ha permesso un perdente agli occhi della collettività. La sanzione diventa la morte”. Narrazione romanzata, fantasiosamente soggettiva, squisitamente ideologica. Non corrisponde al vero che la collettività percepisca come perdente l’uomo che si separa o, come dice l’indagine, che “permette” alla moglie di separarsi. Siamo in presenza della strategia preferita dall’ideologia tossica: prendere una manciata di casi e farne una caratteristica collettiva per 60.000.000 di persone.  Tuttavia tali concetti non sono contenuti in un volantino di Non una Di Meno ma in un documento istituzionale che dovrebbe, almeno in teoria, affrancarsi da ogni inquinamento ideologico. La cultura del possesso viene addebitata all’intera società, lo stigma sociale è tanto umiliante che il femminicida non ha altra via d’uscita che rispondere lavando l’onta col sangue. Non è vero. Si tratta di un bias cognitivo che pervade l’intera indagine.

Condividiamo un esempio concreto: un uomo chiede la separazione, vuole lasciare la moglie per una compagna più giovane. È quindi lui a prendere la decisione di porre fine al matrimonio, non la subisce, non viene biasimato dalla società maschilista per non aver saputo trattenere la “propria” compagna con la forza. Però la moglie non accetta serenamente la separazione, l’orgoglio è ferito poiché è lei che subisce la separazione e anche (elemento da non trascurare) perché viene lasciata per una rivale più giovane; giura di vendicarsi e parte la strategia distruttiva. Si attiva per rovinare l’ex marito, ridurlo in miseria, togliergli la casa o altre proprietà, allontanarlo dai figli, denunciarlo strumentalmente per violenze in realtà mai avvenute. L’uomo realizza che la propria decisione ha suscitato una serie di ritorsioni inique ma alle quali non può opporsi, perde risorse, figli, dignità. Qualora in una lite dovesse uccidere la ex moglie, il delitto sarebbe addebitabile al dominio e controllo assoluto, come sostiene l’indagine, o piuttosto la causa scatenante dovrebbe essere individuata altrove, magari nella disperazione per essere ridotto in rovina, nella depressione per le ritorsioni subite, nella sensazione di non avere vie d’uscita o altro ancora? Non si stratta di disconoscere la gravità del gesto criminale, né tantomeno giustificarlo. Non c’è la volontà di costruire attenuanti  ma di risalire all’innesco del gesto criminale, che non è  “riaffermare e confermare il suo potere “ come vuole sostenere l’indagine.

commissione femminicidio
La Commissione Parlamentare sul Femminicidio

Le deduzioni vittimistiche della Commissione Femminicidio.

La casistica è ampia, su questo ed altri esempi concreti sarebbe utile un confronto con le componenti della Commissione. Il fenomeno delle accuse strumentali, specificamente in ambito separativo, è tutt’altro che residuale e viene rilevato da anni da parte delle operatrici giudiziarie in percentuali che oscillano tra il 70 ed il 80%, a seconda delle Procure. Archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni non sanano il trauma delle false accuse che, al contrario, causano pregiudizi a volte insanabili negli innocenti illecitamente coinvolti: costi economici ed emotivi enormi, stress, immagine sociale distrutta. Appare quindi fuorviante, ad altro tacere, sostenere che “il criminale di genere forma la sua identità su una relazione di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione che conosce”. Togliere la vita ad una persona è sempre un atto ferocemente criminale, qualunque sia il motivo. Tuttavia invece di propagandare lo slogan “donna uccisa in quanto donna” sarebbe utile verificare se una truffatrice viene uccisa non in quanto donna ma in quanto truffatrice, una traditrice non in quanto donna ma in quanto traditrice (non solo in senso sessuale), una ricattatrice non in quanto donna ma in quanto ricattatrice, una calunniatrice non in quanto donna ma in quanto calunniatrice. Non è il fatto di essere nata donna che costituisce il fattore di rischio, che quindi non è riconducibile a uno sterminio di genere insopprimibile, ma il fatto di essersi trasformata in un determinato momento della propria vita in ricattatrice, calunniatrice, truffatrice o altro. Il fattore di rischio è comportamentale, non genetico.

Per lo stesso motivo un uomo può uccidere un usuraio non in quanto uomo ma in quanto usuraio, può uccidere un magrebino non perché odia gli immigrati ma perché veniva rapinato, un sequestratore sardo può uccidere un complice romano non perché odia i romani ma perché veniva truffato sulla spartizione del riscatto (esistono casi reali). Una donna può uccidere le figlie non perché odia le bambine ma per non darle al marito, un figlia può uccidere la madre non perché odia le donne ma per motivi di interesse economico, una nipote può uccidere la zia non perché vuole opprimere le donne ma per non sopportarne le imposizioni (esistono casi reali). Principio comunemente riconosciuto analizzando delitti compiuti all’interno dello stesso genere, ma entra in crisi quando i delitti sono tra generi diversi: il movente sparisce, ogni episodio deve essere classificato come dominio maschile, possesso, oppressione della donna. Insiste il report: “ le donne sono uccise non perché in sé fragili o vulnerabili, ma perché, o diventano tali nella sola relazione di dominio o, al contrario, nella gran parte dei casi, con veri e propri atti di coraggio, si ribellano all’intento dei loro aggressori di sfruttarle, dominarle, possederle e controllarle (…) Nella maggioranza dei casi, dunque, la rottura dell’unione non emerge dagli atti neanche come intenzione della vittima. Dunque il femminicidio si conferma come un atto di volontà di dominio e di possesso dell’uomo sulla donna al di là della possibile volontà di indipendenza e di rottura dell’unione della donna stessa”. Vistosa contraddizione, non è l’unica nell’indagine: le donne vengono uccise perché con veri e propri atti di coraggio si ribellano ai propri aggressori che vogliono possederle e controllarle, poi però nella maggioranza dei casi la rottura della coppia non emerge dagli atti nemmeno come intenzione della vittima. Non è meraviglioso? Il fantomatico atto di coraggio non esiste nei fascicoli minuziosamente esaminati; è una deduzione della Commissione, funzionale alla narrazione vittimistica.

mani anziane

L’indegna speculazione sugli anziani.

Poi si arriva ai numeri, come già detto un aspetto non verificabile in quanto non esiste l’elenco dei casi presi in esame. “Più della metà delle 197 (ma non erano 192 episodi? Non è dato di sapere in quali casi vi siano vittime plurime ) donne vittime di femminicidio (113 su 197, il 57,4%) sono uccise dal proprio partner (inteso come il marito, il compagno, il fidanzato, l’amante), che nel 77,9% dei casi (88 su 113) coabitava con la donna. Il 12,7% (25 donne) sono uccise, invece, dall’ex partner (Tabella 8). Si noti che, nei casi in cui è il partner a commettere il femminicidio, in 4 coppie su 10 si riscontrano nei fascicoli segnali di rottura dell’unione, in particolare nel 4,4% dei casi la coppia era separata di fatto, nel 9,7% la separazione era in corso e nel 23,9% la donna aveva espresso la volontà di separarsi. Tra i femminicidi in ambito familiare, vi è poi un discreto numero di casi in cui a uccidere sono i figli (18 vittime, il 9,1%) o i padri (9 vittime, il 4,6%) delle vittime, oppure un altro parente (12 vittime, il 6,1%). In totale quasi il 20%. In 7 casi, invece, l’autore dell’omicidio è stato identificato come un cliente della vittima (sono quelli in cui la vittima si prostituiva), e in 2 casi come il suo spacciatore. In 5 casi, per finire, l’autore dell’omicidio era un altro conoscente della vittima (un amico, un vicino, etc.), in altri 5 non è mai stato identificato. Solo in 1 caso l’autore era ad essa sconosciuto”. Dunque 9 casi tra spaccio e prostituzione, magari una rapina finita male o una lite per droga non pagata, comunque moventi economici ma la verifica è impossibile visto che l’elenco dei casi viene omesso; 5 casi in cui l’assassino non è mai stato identificato, ma per l’indagine è sicuro che si trattasse di un uomo ed è altrettanto sicuro che la causa sia riconducibile al fatto che “il criminale di genere forma la sua identità su una relazione di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve a riaffermare e confermare il suo potere”. Gli inquirenti non sono stati in grado di appurarlo, ma la Commissione sì.

Poi i delitti fra anziani: “Da notare che i quozienti più alti di femminicidi per 100.000 donne si evidenziano tra le donne anziane e di 35-44 anni. Il dato delle donne anziane è particolarmente importante perché sono meno visibili nella narrazione dei media, dove più frequentemente sono considerate le più giovani.” Sono tanti ma meno visibili nei media perché non sono femminicidi. Quando un marito anziano e malato si sucida dopo aver ucciso la moglie anche lei affetta da un male incurabile la uccide per non farla più soffrire, per pietà, compassione, morire insieme come gesto estremo di amore… non si può gridare alla gelosia morbosa, alla mancata accettazione della fine di un rapporto, all’oppressione di genere, al possesso, al controllo. Sono delitti della solitudine, della disperazione e della malattia, in alcuni casi le Procure hanno coniato la definizione di “omicidio di tipo altruistico”, noi la definizione “delitto eutanasico”, tuttavia vengono sistematicamente inseriti tra i femminicidi anche quando la coppia lascia le ultime volontà per iscritto, chiarendo la volontà di farla finita insieme per non essere più di peso ai figli (casi reali). Verifica che effettuiamo costantemente, caso per caso, ad ogni debunking annuale, ma anche questa resa impossibile dalla mancanza nell’indagine degli elenchi con i casi presi in esame. Però i delitti tra anziani non possono essere esclusi dal computo, così come i moventi economici o i delitti legati agli stupefacenti, altrimenti il totale risulterebbe troppo basso. Meglio infilarci di tutto e non pubblicare l’elenco, così nessuno può verificare. Ma secondo la Commissione anche il vecchietto che uccide la moglie malata terminale per non farla più soffrire, in realtà la odia, ne è geloso e ne rivendica il diritto di vita e di morte dopo averla sottoposta a continue violenze per tutta la vita: “mancato ricorrente inquadramento del femminicidio (…) come acme di una quotidiana precedente violenza, che viene semplicisticamente ed erroneamente ridimensionata ad atto impulsivo della gelosia dell’uomo violento, chiave di lettura che non descrive, ma distorce, la complessità del fenomeno criminale, fino a giustificare il femminicidio di donne malate o disabili, in particolare quando commesso da autori anziani”.

femminismo

Il coinvolgimento dei centri antiviolenza.

Ulteriore osservazione sulle modalità con le quali le vittime di femminicidio chiedono aiuto prima dell’evento delittuoso. “Il 63% (123 su 196) delle donne non aveva riferito a nessuna persona o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo. (…) Le donne che si aprono con qualcuno, segnalano, o denunciano, la violenza subita (73 su 196, il 37%) tendono a farlo, in primo luogo, con persone a loro vicine. Nella maggior parte dei casi (il 60%, 44 su 73), tuttavia, questa esternazione non si traduce, poi, in una denuncia. (…) Solo il 15% delle vittime aveva denunciato precedenti violenze. (…) Solo il 15% (29 su 196) delle donne aveva sporto denuncia/querela per precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai propri danni”. Meravigliose le capacità extrasensoriali dimostrate dall’indagine: il 63% delle vittime (non l’1 o 2% ma il 63% quindi una larghissima maggioranza) non aveva riferito a nessuno le violenze pregresse subite. Non esistono denunce, accessi ad un CAV, telefonate al 1522, referti medici, confidenze fatte ad amiche, madri, sorelle, zie, cugine, colleghe, vicine di casa… nulla. Però la Commissione nutre l’incrollabile certezza che le violenze pregresse vi siano state, altrimenti crollerebbe il postulato sul quale è costruita l’intera indagine:  “Tutti i femminicidi esaminati si connotano per due requisiti costitutivi: il criminale di genere forma la sua identità su una relazione di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve a riaffermare e confermare il suo potere”. Quindi è impossibile ammettere che una coppia abbia vissuto 10, 15 anni o anche tutta la vita in armonia e la violenza sia comparsa solo in un momento preciso e per un motivo altrettanto preciso. La violenza del “criminale di genere” deve essere perenne, spalmata lungo tutto il periodo di convivenza: se la violenza emerge la donna ne è vittima, se non emerge affatto ne è vittima ugualmente perché la Commissione è certa che sia così.

Un dato sorprende, ed è in controtendenza con la narrazione che viene fatta sulla utilità salvifica dei centri antiviolenza e del numero verde antiviolenza 1522. I media annunciano con continuità l’aumento esponenziale delle chiamate al 1522 ed i CAV dicono di essere subissati dalle richieste di aiuto, però l’indagine dice che nel biennio 2917-2018 solo 5 delle vittime di femminicidio erano  entrate in contatto con un CAV (o tali qualificatisi specifica il capitolo 5.2.5, qualunque cosa voglia dire) e nessuna aveva mai chiamato il 1522. Tuttavia non tutte le 5 donne entrate in un CAV hanno avviato un iter giudiziario: “Secondo i dati statistici nella maggior parte dei casi (3 su 5) il contatto era stato o con un’operatrice o con una psicologa ma mai con un’avvocata e questo spiega anche le difficoltà riscontrate rispetto all’accidentato e difficile percorso giudiziario delle donne che avevano denunciato”. Esigui anche i dati sulle donne (29 su 197) che prima di essere uccise avevano denunciato, pur senza essere passate dai CAV: “Risulta poi che soltanto 5 donne su 29 che avevano sporto denuncia/querela (il 17%) fossero seguite da un avvocato/a come persona offesa dei reati denunciati. In 4 casi l’avvocata era donna, in un caso non si possiede questa informazione”. Non è chiaro il motivo della precisazione sul genere della professionista, probabilmente per la Commissione  l’avvocata costituisce un valore aggiunto come indice di maggior professionalità, competenza, empatia con la vittima.

giudice

La contestazione delle prassi processuali.

Una lunga parte dell’inchiesta (pagg. 29–75) è dedicata all’analisi della fase processuale: indagini, pene erogate, attenuanti, perizie, archiviazioni, linguaggio delle sentenze. Emergono dati scontatissimi ma narrati come criticità, ad esempio il confronto delle differenze tra la pena chiesta dal PM e quella erogata dal tribunale, una costante nel 99% dei processi a prescindere dai reati e dal genere degli autori. Altra criticità sarebbe il riconoscimento delle attenuanti e l’alta percentuale di perizie, che nell’indagine viene così descritta (pag. 34): “La infermità mentale come strategia difensiva dell’autore. Nel 59% (70 su 118) dei casi viene posta in dubbio la capacità di intendere e di volere dell’autore”. Sarebbe interessante fare un confronto con la incapacità temporanea di intendere e volere a ruoli invertiti, riconosciuta quando l’aggressore è donna e l’aggredito è un uomo. L’analisi della fase processuale è veramente interessante per la sua “cristallina imparzialità”, per questo in redazione stiamo valutando se farne una terza puntata.



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