L’ultima campagna degli attivisti arcobaleno, “Chiedimi se sono felice”, incentrata su interviste ad alcuni soggetti, bambini e adolescenti, “transgender” e le loro famiglie, ripropone gli assunti della propaganda che conosciamo molto bene: la condizione “transgender” sarebbe una caratteristica innata, di per sé non patologica e non problematica, e i soggetti che la presentano sarebbero tutti felici e contenti («Io non sono disforica, sono euforica! Sono felice o triste per i motivi di tutti, a me il fatto di essere transgender non mi cambia niente» dice uno dei testimonial) se solo non si negasse loro l’accesso (pagato coi soldi pubblici, ovvio) ai trattamenti ormonali. Chi non è d’accordo o pone dubbi è “ignorante” o peggio fa disinformazione scientifica (ovviamente motivata da “paura” o “odio” per il diverso). Ad esempio in uno dei video, con musica emozionale in sottofondo, un uomo dice: «Ho imparato che mia figlia è nata così. L’unico problema vero che ha è che questa società non capisce che la diversità è un arricchimento, la rifiuta, ne ha paura. Sono il padre di una ragazza che lotta per i suoi diritti, il diritto di esprimere sé stessi». Ma di quali “diritti” si parla in soldoni?
Di soldoni, appunto: «Se chiudiamo il Careggi dove andiamo? Noi non siamo ricchi, il chirurgo vuole 18.000 euro, e poi tutto quello che ci va dietro, ci vogliono quasi 30.000 euro. È tutta la mia liquidazione. E il fratello che vorrebbe studiare, andare all’università? Chiudere il Careggi impedirà a moltissime persone di vivere. È brutto da dire, ma mia figlia era arrivata a un punto che si svegliava la mattina pensando di dover morire perché così non ce la faceva più». Il solito ricatto morale: i transgender nascono così, non è una patologia, “ma quale disforia?”, anzi sono euforici, però senza trattamenti soffrono tantissimo, al punto da rischiare il suicidio. Un recente report, pubblicato a inizio luglio dall’American Principles Project (APP, associazione statunitense in difesa dei diritti della famiglia “tradizionale”) smentisce, dati e ricerche scientifiche alla mano, questa propaganda per l’ennesima volta e al contempo disegna un quadro sconcertante del giro d’affari in crescita vertiginosa intorno alla “medicina transgender”. Già la pubblicazione (lo scorso aprile) del testo finale della “Cass review”, la più ampia meta-review sistematica sull’evidenza scientifica ad oggi disponibile condotta dall’Università di York, ha messo di fatto una pietra tombale sull’“approccio affermativo” stabilendo che l’evidenza in favore dei benefici è debole e insufficiente, sottolineando invece i potenziali rischi e raccomandando piuttosto differenti approcci terapeutici (e già tale ricerca ha avuto un impatto sul sistema sanitario nazionale britannico, che ha bandito la prescrizione di ormoni bloccanti a minorenni, e di altri paesi).
Gli esiti della medicina transgender.
Il report dell’APP prosegue su questa strada, anzitutto evidenziando che il dato dell’elevatissimo rischio di suicidalità nei soggetti transgender si basa su fonti che vengono spesso citate ma che a un’analisi approfondita si sono rivelate inattendibili (sondaggi anonimi promossi da associazioni di attivisti). Studi scientifici dimostrano invece che i soggetti con sola disforia non mostrano maggior rischio di suicidalità, con buona pace di quelli che sostengono che la colpa sarebbe della società cattiva che discrimina i “diversi”: i soggetti a rischio sono tali perlopiù a causa di altre problematiche di salute mentale soggiacenti, che però vengono ignorate dai clinici compiacenti, nell’idea fallace che trattando la disforia ogni sofferenza scomparirà per magia (per le fonti dei singoli dati, si rimanda alle note e all’appendice nel report). Studi dimostrano anche che il trattamento ormonale e quello chirurgico, lungi dall’essere “salva-vita”, comportano un forte stress fisico e psicologico e di fatto il rischio di suicidalità in seguito a tali trattamenti aumenta: ad esempio si individua un tasso di tentati suicidi raddoppiato dopo un intervento di vaginoplastica in soggetti femminili transgender. Si descrivono poi gli effetti avversi dei trattamenti ormonali, conseguenze tutt’altro che “reversibili”: come il mancato aumento della densità ossea (che non potrà essere recuperata del tutto neanche cessando il trattamento), con il conseguente aumento del rischio di fratture debilitanti e osteoporosi in età precoce rispetto a chi attraversa la pubertà.
Per non parlare dell’impatto degli ormoni sullo sviluppo neurologico, sulla fertilità, e sulla salute del cuore: «pazienti con disforia che hanno assunto ormoni bloccanti risultano a rischio aumentato sette volte di ischemia, sei volte di infarto e cinque volte di embolia polmonare». Gli interventi chirurgici oltre a prevedere continui controlli e interventi di mantenimento talora invasivi o fastidiosi, sono ad elevato rischio di complicazioni (come sanguinamenti, ferite interne, infezioni) che spesso richiedono una ri-ospedalizzazione e ulteriori interventi chirurgici riparativi. Il problema è che mentre intraprendere un percorso di transizione è spesso motivo di “euforia” per il paziente (fenomeno noto come “fase luna di miele”), facilmente si ignorano problemi e rischi che il percorso comporta su lungo termine. Dice il report: «Parte del problema sta nella credenza quasi religiosa che accompagna il proliferare del transgenderismo. Stiamo accettando per “un atto di fede” che normalizzare queste procedure comporterà più benefici che rischi. Ma sotto questa superficie ideologica c’è una struttura molto potente che si nutre di un mercato in crescita: la religiosità di superficie serve a tenere la gente all’oscuro su questa realtà sottostante». Sappiamo già che negli ultimi tempi si assiste a un aumento vertiginoso dei minorenni con disforia: «almeno 121.882 bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni hanno ricevuto tale diagnosi tra il 2017 e il 2021; di questi, 42.000 nel solo 2021. 17.683 di questi soggetti hanno iniziato ad assumere ormoni». E questo è un dato parziale: riguarda solo i soggetti che hanno avuto accesso al trattamento mediante assicurazione sanitaria, e lascia fuori tutte le diagnosi diverse (difatti il report documenta che i dottori, per aggirare quelle assicurazioni che non forniscono copertura per la “disforia di genere”, giustificano talora le prescrizioni con altre sigle, ad esempio “disturbo endocrino generico”).
Chi lucra sarà felice.
Si tratta, come lamentava anche il protagonista del video che abbiamo incontrato più sopra, di bei soldoni: «È possibile quantificare il giro d’affari dei trattamenti e degli interventi nel loro complesso? L’APP ha commissionato un’analisi di mercato a Grand View Research sul mercato della medicina transgender e i risultati sono scioccanti: per i soli interventi chirurgici si parla di un giro d’affari di 4,12 miliardi di dollari nel 2022, con un tasso di crescita dell’8,4% annuale fino al 2030». Il report documenta questa crescita anche per singole cliniche tra le maggiori negli USA, ad esempio il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, che ha un fatturato di 205 milioni di dollari legato alla chirurgia “affermativa” per il solo 2022. Anche i trattamenti ormonali promettono begli affari: ad esempio la multinazionale del farmaco AbbVie ha ottenuto un ricavo di 51,6 milioni di dollari nel solo 2022 dal commercio di ormoni bloccanti e cross-sex (estrogeni e testosterone). Forse nessuno lo ha espresso più chiaramente della Dr.sa Shayne Taylor, della clinica Vanderbilt per la medicina transgender: la clinica è stata aperta in un contesto politico ostile, grazie anche alla descrizione appetitosa fornita dalla Taylor. In una presentazione divenuta ormai celebre spiegò a colleghi e investitori che la medicina affermativa è una «grossa fabbrica di danaro», perché i soggetti che vi finiscono dentro saranno “clienti” per tutta la vita: «Un intervento al seno può fruttarci 40.000 dollari. Un solo paziente sotto trattamento ormonale di routine, che vedremo giusto qualche volta l’anno, ci porta svariate centinaia di migliaia di dollari perché richiede molte visite di controllo e esami di laboratorio che portano profitti alla clinica. Queste cose non le ho “lette su internet” ma le traggo direttamente dal Philadelphia Center per la chirurgia transgender, perché vi facciate un’idea su quanti soldi si possono fare con questi interventi. E sono stime al ribasso: prendiamo una vaginoplastica, l’intervento in sé frutta 20.000 dollari, ma bisogna aggiungere i giorni di degenza in ospedale, le visite post-operazione, l’anestesia eccetera: sono solo, per così dire, la fetta del chirurgo» (“the surgeon’s piece of it”).
«Morale: non solo la clinica ha aperto, ma la Dr.sa Taylor è passata da trattare un singolo paziente a 2000 nel giro di quattro anni». Ulteriori profitti derivano da un “indotto” che va dalla chirurgia estetica e funzionale, per “passare” meglio come soggetti dell’altro sesso, alla tecnologia al servizio della medicina transgender. Dice il report: «Per quanto poco considerato, questo settore è ben finanziato e supportato da soggetti di elevato potere. Il brand Euphoria ad esempio, che si descrive come l’“Adobe della medicina transgender”, ottiene centinaia di migliaia di dollari ogni anno per sviluppare app dedicate come Bliss, che fornisce un sistema di pianificazione finanziaria per i trattamenti, Solace, che offre una sorta di “bignami” del processo di transizione, e Devotion, che manda messaggi “affermativi” dell’identità di genere, tarati sull’utente» (quest’ultima disponibile per utenti dai 4 anni in su). Altri servizi informatici come Plum e Folx, al costo di una sottoscrizione annuale, facilitano il contatto tra pazienti e professionisti e cliniche del settore “certificati”: hanno attratto rispettivamente 14 e 25 milioni di dollari di investimenti nel solo 2021. Si tratta quindi di un business già notevole ma di enorme potenziale di crescita. R. K. Anthony, CEO di Euphoria, in un’intervista per Forbes del 2020 ha affermato: «Il costo medio di una transizione è 150.000 dollari a persona. Se si moltiplica per una stima di 1,4 milioni di persone transgender, stiamo parlando di un mercato potenziale di 200 miliardi di dollari. È un giro d’affari superiore a quello dell’intera industria cinematografica!». Ma perché insistere così tanto su bambini e adolescenti? Perché il loro trattamento potenziale avrà una durata maggiore nel tempo, e quindi consentirà più profitti: «La durata del processo di transizione varia significativamente, da alcuni mesi a svariati anni. La lunghezza e la natura di questo processo dipendono dall’età cui il paziente lo inizia, e dal tipo di procedure che decide di effettuare. Per coloro che iniziano durante l’infanzia, sarà un processo più lungo (e avrà un più pesante impatto psicologico). Il costo degli ormoni varia dai 500 dollari ai 5000 l’anno. Per una vita intera, se il paziente inizia a prenderli a 18 anni e continua per il resto della sua vita, il costo totale potrà superare i 300.000 dollari». Profitti che, come abbiamo visto, questa industria genera sulla pelle di bambini e adolescenti. Che sul momento, nella fase euforica (che dura in media 7-8 anni), magari sono anche felici del percorso di transizione intrapreso. Ma saranno felici anche in futuro? Per questi bambini e ragazzi, purtroppo, la risposta è spesso negativa. Mentre chi ci sta lucrando sopra sicuramente sarà molto, molto felice.