di Giorgio Russo. È stata approvata settimana scorsa in Senato la relazione prodotta dalla “Commissione sul femminicidio”, riguardante il sistema dei centri antiviolenza e delle case-rifugio. Più di venti pagine dove si rivela l’esistenza in Italia di 366 centri antiviolenza e 264 case rifugio, nella quasi totalità dei casi gestiti da enti privati asseritamente “senza fini di lucro”, tutti indistintamente finanziati da un mix di risorse pubbliche statali, regionali e talvolta anche comunali. Un’articolazione che il documento della Commissione denuncia come disagevole, portatore di rallentamenti e lungaggini, soprattutto nel trasferimento dei fondi.
Un’articolazione che per altro viene additata come ormai inadeguata, in quanto denotata da un aspetto emergenziale che non c’è più. Nel senso che, dice il report, la violenza maschile contro le donne è diventata (ma lo è sempre stata) strutturale, dunque anche il trasferimento di fondi dovrebbe esserlo. E non più con cadenza annuale, ma triennale, per poter “programmare le attività”, dice la Commissione. O forse per tirare a campare per un periodo un po’ più lungo che non i soliti striminziti dodici mesi. Perché la questione risorse va riordinata: dal 2014, cioè da quando si è compreso che l’antiviolenza di professione era un business ricco, i centri antiviolenza e le case rifugio sono spuntate come funghi. E non tutti hanno i requisiti di legge, denuncia la Commissione.
Le femministe, insomma, come i Queen, vogliono tutto e lo vogliono adesso.
I requisiti sono stati fissati da un’Intesa Stato-Regioni proprio nel 2014, ma si tratta di una norma che non dà standard specifici, si limita a dare qualche linea guida e qualche disposizione cogente (tipo che le operatrici devono essere solo donne). Invece, azzarda la relazione, occorrerebbe fissare standard di qualità più stringenti e severi, magari controllati da un organismo di vigilanza con poteri ispettivi. Saltiamo sulla sedia a leggere una cosa del genere: è quanto andiamo predicando da anni. Che l’On. Valente & Co. siano improvvisamente rinsaviti? Certo che no, ovviamente c’è il trucco. Tutto il documento è infatti pervaso da una lamentela molto chiara: i veri centri antiviolenza e case rifugio, cioè quelli conformi al dettato della Convenzione di Istanbul, cioè quelli fanaticamente femministi, sono pochi. Gli altri sono gestiti da ONLUS che erogano anche servizi sull’antiviolenza, ma non solo. Non sono “specializzati” insomma.
La lamentela così diventa pretesa. Pretesa per una riforma del sistema che imponga la destinazione delle risorse ai soli centri antiviolenza che abbiano “una visuale femminile e femminista” al problema della violenza di genere. Cioè, si specifica, quelli che adottano l’approccio delle “donne che parlano e comprendono altre donne in difficoltà”, sul modello dei “gruppi di autocoscienza” stile anni ’70 (poco importa che siano tra gli anni più bui della storia repubblicana…), e che facciano solo quello di mestiere, non altro. In altre parole, a esprimersi per bocca della “Commissione sul femminicidio” sono le femministe italiane, e il loro messaggio è chiaro: i soldi vanno dati a noi e solo a noi. E devono aumentare, oltre a diventare strutturali. Le Regioni devono dunque smettere di alimentare l’intero Terzo Settore e iniziare a utilizzare i fondi soltanto agli agenti dell’ortodossia femminista, centri antiviolenza o case rifugio che siano. Le femministe, insomma, come i Queen, vogliono tutto e lo vogliono adesso.
Ecco allora il trucco. I requisiti più stringenti, la verifica della qualità dei servizi, l’osservatorio con poteri ispettivi non è quello che prefiguriamo noi da tempo, cioè un controllo certificato in itinere e uno ex post che vincoli l’erogazione dei fondi ai casi di violenza davvero risolti, dove la donna viene messa davvero in condizione di ricominciare e dopo una sentenza di condanna per l’uomo violento. No no, l’astuzia qui sta nell’esigere un controllo preliminare di congruità ai requisiti, una verifica ex ante. Se la riforma proposta dalla Valente andasse in porto, qualunque associazione o coop beccata a non fare business solo con l’antiviolenza, nei modi e nei toni imposti dalle femministe, ma ad occuparsi magari anche di anziani o disabili o altre fragilità, verrebbe subito privata delle risorse. Ma non perché le femministe sono cattive o avide. No no, è solo che, testualmente: “la violenza maschile è una questione sociale e culturale fondata su gerarchie di genere, relazioni di potere e disuguaglianze”, e dunque se ne devono occupare loro in esclusiva. Gli altri si trovino altre mangiatoie dove ficcare il muso.
Questo è in sostanza il messaggio della relazione appena approvata dal Senato. Essa è infarcita di tante tematiche note: le statistiche farlocche dell’ISTAT, l’orrore dei centri antiviolenza che fanno formazione alle forze dell’ordine e nei tribunali, le sollecitazioni del GREVIO, citate ossessivamente, a far pesare la pressione proveniente anche dall’Unione Europea e dalle lobby internazionali, e tutta la grande mistificazione usuale. Ma il concetto che si vuole far passare è quello che abbiamo illustrato, non altro. È la richiesta a che il Senato istituzionalizzi un privilegio mai visto nella storia delle istituzioni approvando una riforma dalle finalità molto chiare: soldi, tanti, subito, senza passare dal codice degli appalti, mantenendo totale segretezza sulle attività svolte e sugli esiti del lavoro. Resta da capire se il Senato obbedirà a questo che è, in sostanza, il tentativo di golpe di un’organizzazione che, lo hanno capito Polonia, Ungheria e Turchia, tende a diventare uno Stato nello Stato. Ovviamente il report della “Commissione femminicidio”, oltre a questo, chiede un aumento delle risorse, e non è una novità. La novità è che in un punto elenca i denari già erogati al sistema a favore dell’industria dell’antiviolenza. Ed è una parte notevole, troppo importante per un paragrafo, per questo le dedicheremo un articolo apposito che uscirà nel pomeriggio.