La Fionda

CCNL: privilegi femminili e affarismo sindacale

CCNL sta per “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro”. Ne esiste uno per ogni settore economico e raccoglie una serie di norme riguardanti i rapporti tra azienda e lavoratori: la gestione di ferie e permessi, il calcolo del salario secondo livelli e mansioni, e così via. In sostanza i CCNL sono la “bibbia” dei rapporti di lavoro, non a caso vengono firmati congiuntamente dalle rappresentanze dei datori di lavoro, dai sindacati dei lavoratori e dal Ministero del Lavoro. Come tali, hanno forza di legge: se sorge un contenzioso tra azienda e lavoratore, il giudice è anche ai CCNL che deve fare riferimento. E per intenderci ancora meglio, è nei CCNL che si stabilisce la parità di retribuzione a parità di livello, anzianità, mansioni e una serie di altri parametri che prescindono dal sesso, con buona pace dello sbandierato “divario salariale di genere” (che dunque è già illegale nel nostro paese).

In questo periodo si è discusso il rinnovo del CCNL per il settore metalmeccanico, che qualche giorno fa ha ottenuto la firma dei sindacati. Alla Sezione Quarta, Titolo VI, Articolo 12-bis, si stabilisce quanto segue (sottolineature nostre):

CCNL metalmeccanici

Sottinteso: gli uomini vittime di violenza non esistono.

Questo mondo, e in particolare questa Italia patriarcale, dunque, organizza sul piano contrattuale una serie di veri e propri privilegi riservatissimi, appannaggio soltanto delle “donne vittime di violenza”. Che è un doppio privilegio: in sé e anche perché il riconoscimento della qualifica di “vittima” non è rimessa alla sentenza di un giudice che, tramite sentenza, riconosca la donna in questione appunto come vittima “oltre ogni ragionevole dubbio”, bensì alla valutazione di un centro antiviolenza, ossia di un’ordinaria associazione non soggetta ad alcun tipo di controllo. Il tutto senza che siano previsti interventi sul piano normativo per evitare che la donna e il centro antiviolenza si accordino incrociando i loro interessi (tipo: “ti certifico come vittima di violenza, anche se non è vero, a patto che ci ritorni una percentuale dello stipendio che riceverai a babbo morto per sei mesi”). Non solo: lo stipendio garantito nei sei mesi di astensione dal lavoro viene pagato tramite un fondo alimentato da denaro pubblico e gestito in esclusiva dai sindacati che, per questa operazione in nome e per conto dello Stato, con buona probabilità trattengono per sé un X per cento. Una volta rientrata al lavoro dopo sei mesi di vacanza pagata da tutti noi, la donna in questione può fare un po’ ciò che le pare in termini di orario, giornate lavorative o collocamento in azienda. Insomma, un sistema dove tutti hanno qualcosa da guadagnare.

Tutti? Non proprio. Sul piano legale quelle disposizioni violano apertamente l’Articolo 3 e l’Articolo 37 comma 1 della Costituzione, oltre che tutti gli articoli dello Statuto dei Lavoratori in materia di atti discriminatori contro i lavoratori e le lavoratrici. E il punto sta proprio lì: questa norma inserita nel CCNL metalmeccanici discrimina apertamente il lato maschile, che implicitamente assume come unico autore di violenze ai danni del lato femminile, a sua volta implicitamente assunto come unico bersaglio delle violenze. È il cuore stesso dell’ideologia femminista trasfusa nel mondo del lavoro: non c’è alcuna ricerca della parità, ma l’assunzione di un dato indimostrato, indimostrabile e in ogni caso non vero per riservare un chiaro privilegio a un genere specifico. Ben intesi, il problema di questo CCNL è solo il riflesso di un problema più grande che sta a monte: l’Art.24 del DLgs 15/06/2015 come rettificato dalla circolare n.65 del 15/04/2016. È una legge che specifica chiaramente che si sta parlando di un trattamento riservato alle sole donne. Per chi ancora ritenesse ingenuamente che si tratta di un istituto solo nominalmente esclusivo per le donne ma comunque nella pratica aperto a tutti, anche agli uomini, valga la richiesta di chiarimento che nel 2018 Francesco Toesca, oggi Presidente dell’Associazione Lega degli Uomini d’Italia, inviò alla UIL e a cui i sindacato rispose a chiare lettere: gli uomini vittime di violenza non possono accedere a questo privilegio. Sottinteso: gli uomini vittime di violenza non esistono.

risposta UIL

Gli uomini seppelliti nelle fondamenta.

Amici che seguono questo sito e le sue tematiche, e che sono addentro al mondo sindacale, ci fanno sapere che qualche barlume di buon senso si è manifestato durante le discussioni sul CCNL. Più di un sindacalista ha sollevato questioni sull’articolo 12-bis, ritenendolo per l’appunto discriminatorio e chiedendo che al termine “donne” venisse sostituito il termine “persone”. Non irragionevolmente, costoro hanno contestato le decisioni dei vertici sindacali facendo presente che la violenza viene esercitata da chiunque su chiunque, non ci sono particolari specialità o specificità, e che l’articolo, così com’è impostato, rischia di tagliar fuori ingiustamente altre realtà. Senza scomodare fattispecie che si crede non esistano, ossia l’uomo vittima di violenza da parte di una donna, forse che un lavoratore omosessuale vittima di violenza dal partner non avrebbe diritto ad accedere a quei benefici? E perché mai? Quell’articolo 12-bis, dunque, oltre a essere palesemente illegittimo, discriminatorio e sessista, è anche palesemente omofobo. Le risposte dei vertici, così come ci sono state riportate, mostrano una stolidità beota e conformista tipica di chi si adegua all’andazzo per evitare di avere rogne. C’è chi ha risposto che l’articolo è stato redatto con l’ausilio di importanti supporti legali (embè?); altri hanno sostenuto che con quell’articolo il CCNL vorrebbe rimarcare qualcosa che è all’ interno della nostra società, con un’ incidenza dove parlano i numeri in modo grave. Peccato che i CCNL abbiano il compito di regolamentare in modo equo i rapporti azienda-lavoratore, non sono documenti politici dove si debba “rimarcare” qualcosa. Tanto meno se ciò che si rimarca fa riferimento a numeri che sì, parlano in modo grave, ma non di violenza sulle donne, bensì di manipolazione e sovradimensionamento di un fenomeno.

Lo diciamo sempre e lo ripetiamo: la realtà dei fatti (dati del Ministero della Giustizia) parla di una media di meno di 5.000 uomini condannati per violenze varie su donne nel corso degli ultimi dieci anni. Si tratta dello 0,01% dell’intera popolazione adulta maschile nazionale. Nulla, un’inezia. Tutto il resto sono solo denunce, quelle sì una montagna (circa 50.000 in media all’anno), che nella stragrande maggioranza dei casi finiscono archiviate o in assoluzione perché prive di prove e riscontri, più frequentemente perché infondate o strumentali. E se non sono denunce, sono dati autocertificati dei centri antiviolenza, quelli che hanno il potere di “benedire” una donna col crisma della “vittima”, e che hanno bisogno di numeri sovradimensionati per mantenere quel potere e il business che ne deriva. Con loro hanno lo stesso bisogno i sindacati e i politici che costruiscono ampie clientele su questa grande menzogna. A sorreggere questo castello di mostruosità, seppellite nelle sue fondamenta, due categorie ben definite: i lavoratori e i moltissimi poveracci accusati in modo sistematicamente falso di qualche delitto. Entrambi, guarda caso, appartenenti al genere maschile.



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