Non c’è oggettivamente nulla di più spettacolare di quando la narrazione ufficiale entra in collisione con se stessa. Un’eruzione vulcanica o i fuochi d’artificio di Fukuroi Enshu a confronto sono roba barbosissima. Dunque chi si vuole divertire segua la vicenda del bando pubblicato dal Comune di Siena per l’assunzione di un ingegnere che, oltre ai vari titoli professionali del caso, deve essere preferibilmente uomo. Sì, il bando dice proprio così, e lo fa in ottemperanza al DPR n. 487 del 1994: essendo la stragrande maggioranza dei dipendenti del Comune di sesso femminile, per rispetto delle norme sulla parità di genere è opportuno indicare una preferenzialità per il genere sottorappresentato. Strano? Bizzarro? No, è il corretto concetto di parità, baby.
Eppure, apriti cielo. «Non so a chi sia venuto in mente», tuona la consigliera comunale Anna Ferretti, «tra i criteri che l’articolo del 1994 cita, quando a parità di titoli si deve fare una scelta, ci sono ad esempio il numero dei figli, il numero dei tirocini fatti… questa volta tutto questo non è stato considerato, bensì è stata applicata la parità di genere. Penso sia un caso più unico che raro». Già, in effetti nell’Italia del predominio femminista è più unico che raro che si applichi correttamente il criterio della parità di genere. Ma la consigliera Ferretti appartiene evidentemente a quella corrente di pensiero per cui la parità c’è quando gli uomini sono in netta minoranza o non ci sono proprio. Un criterio già affermato da Poste Italiane, per le quali la parità di genere c’è perché le donne impiegate sono il 69% del personale. Il che è poi lo stesso meccanismo alla base di quella burletta internazionale che è il “Gender Equality Index”.
Niente parità per gli uomini.
È un po’ lo stesso approccio strabico per cui devono esserci più donne in Parlamento, nei Consigli d’Amministrazione, nei posti direttivi, ma non ad asfaltare le autostrade, a coibentare tetti o a pulire cisterne, dove pure la presenza di lavoratori uomini è predominante. È anche lo stesso approccio che perde validità se applicato a sessi invertiti: non si dà che si richieda una maggiore presenza maschile tra gli infermieri, gli insegnanti, gli assistenti sociali, i lavori di segreteria. Insomma in Italia c’è parità purché nulla si conceda al sesso maschile. E questo accade per una ragione duplice e molto precisa. Da un lato ci sono secoli di patriarcato, ossia di dominio maschile da farsi perdonare e da risarcire: un debito non misurabile né nello spazio, né nel tempo, un peccato originale che nessuna confessione potrà mai emendare.
Dall’altro lato ci sono i dati sull’occupazione, citati anche dalla consigliera Ferretti a giustificazione della sua alzata di scudi: l’occupazione femminile è al 53,2% e quella maschile al 61,5, il tutto aggravato dal ben noto divario salariale di genere. Quale gigantesca bubbola sia quest’ultimo è ben noto a chiunque si informi in buona fede, la sua esistenza è stata ampiamente smentita da tempo, quindi non ci spenderemo parole. Meno nota è la falsificazione nascosta nella citazione dei dati occupazionali, che da soli danno un quadro parziale del mercato del lavoro diviso per genere. Viene sempre omesso infatti l’importante dato degli uomini e delle donne inattivi, ossia che non hanno, non hanno cercato e non intendono cercare alcun impiego. Tra questi, il numero di donne è più che doppio rispetto agli uomini. Per qualche motivo, che avrebbe sicuramente senso esplorare, gli uomini si danno decisamente più da fare per trovare un lavoro che non le donne. Lì sta la radice dell’inevitabilmente maggior numero di uomini occupati e non, come si vuole far credere, in una congiura patriarcale orientata a tenere le donne in casa inchiodate al lavello. Eppure questa narrazione falsificata e falsificante piace un sacco e infetta come un virus ad alta contagiosità tutto e tutti, fino a far passare come improprio un bando d’assunzione finalmente davvero improntato alla parità di genere.