Premessa indispensabile da porre, prima di affrontare l’argomento: questo sito tendenzialmente disprezza visceralmente tutta la politica italiana e i suoi rappresentanti, da destra a sinistra, nessuno escluso. La disprezza di per sé, in quanto condotta da personaggi, salvo qualche felice e isolata eccezione, di bassissimo profilo umano ed etico, privi del più basico concetto di “bene pubblico”. Ma la disprezza anche, nello specifico, perché tutta imbevuta di ideologia femminista, chi in termini di vera fede e chi (in maggioranza) in termini strumentali, elettorali e clientelari. Un allineamento portato avanti con cieco fanatismo, per chi ci crede davvero, o con una raccapricciante ipocrisia, per chi ne fa un uso strumentale. Il bieco romanzo Quirinale andato in scena nei giorni scorsi è una prova schiacciante della miserabilità della politica italiana, in generale e in una prospettiva di ideologia di genere, oltre che un’ulteriore giustificazione al nostro più profondo disprezzo.
In un’ottica ampia ci sono due chiavi di lettura che vanno per la maggiore e che si pongono come alternative. C’è chi dice che il teatrino gattopardesco andato in scena alla Camera abbia avuto gli esiti che si sono visti banalmente perché i deputati e i senatori coinvolti hanno in realtà una e una sola preoccupazione: arrivare in carica a quel punto della legislatura oltre il quale gli è garantita la ricca pensione per ex parlamentari. Una mera somma di interessi personali, insomma, ha fatto sì che tutto rimanesse ingessato nella situazione costituzionalmente borderline (ma forse forse anche ben oltre il border) creatasi con il Governo Draghi. C’è invece chi dice che tutto sia il frutto di diktat superiori e sovranazionali, il famoso deep state che ha spinto a sufficienza affinché un regime gradito venisse riconfermato, con la reinstallazione al Quirinale dell’unico personaggio affidabile e obbediente, seppure in un’ottica temporanea adeguata a spianare la strada del Colle a un altro soggetto sempre affidabile, obbediente ma più spregiudicato, ovvero Mario Draghi. Il suo accesso alla Presidenza della Repubblica (qualcuno sospetta con “pieni poteri” che inglobino anche quelli da Presidente del Consiglio, in una prospettiva di presidenzialismo forzato o di era post-weimeriana) è e rimane infatti il piano a medio termine.
Un’umiliazione per la povera Casellati.
I commentatori critici dell’accaduto pongono le due chiavi di lettura come alternative, ma in realtà nulla vieta di considerarle del tutto complementari: il piano conservativo ha avuto successo anche tenendo conto delle aspirazioni egoistiche dei parlamentari, molti dei quali sono soggetti senz’arte né parte, per nulla intenzionati a mettersi a lavorare una volta perso il seggio, e dunque in necessità di avere entrate certe. La quasi totalità dei grillini (ma non solo) è ad esempio in questa condizione: sa che il Movimento scomparirà alle prossime elezioni per un Parlamento che avrà un numero ridotto di seggi disponibili. La pensione da parlamentare risulta dunque indispensabile a moltissimi per poter continuare a succhiare dalla mammella dello Stato senza necessità di lavorare. Ma oltre a questi aspetti di carattere generale, dati i tempi che corrono, non poteva non manifestarsi la retorica del “primo Presidente della Repubblica donna”. Richiami in questo senso ce ne sono stati già ben prima che iniziassero le procedure per l’elezione dell’inquilino del Quirinale, come parte della propaganda femminista. Una volta apertisi i giochi, quella stessa retorica è diventata martellante e ossessiva, avendo come esito l’usuale montagna di ipocrisia.
I nomi che sono circolati sono tanti: Cartabia (quella amica delle no-PAS), Belloni (“la prima donna a capo dei servizi segreti”), Bonino (nota anche come “miss pompetta“), Casellati (che legge passivamente qualunque documento il femminismo politico le metta sotto il naso). Insomma, in un’ottica di parità di genere le candidature erano oggettivamente una peggiore dell’altra, una vera iattura, controbilanciabili in termini meramente beffardi da candidature come quelle di Casini (che qualcuno sostiene malignamente abbia ingravidato la colf rumena) o del Berlusconi delle “feste eleganti” di Arcore. Alla fine, complice la strategia psicotica di Matteo Salvini, dal cilindro è saltata fuori la candidatura della Casellati, forse la meno peggio tra quelle in lizza. Sostenne la tesi di Ruby “nipote di Mubarak” e difese a spada tratta il Cavaliere coinvolto nello scandalo delle donnine allegre: il suo femminismo sarebbe stato figurativo e pochissimo autorevole, una pallottola spuntata. Insomma, meglio che niente. Se non che, com’è noto, la Presidente del Senato è stata impallinata proprio dal partito da cui proviene (Forza Italia) con l’aiuto decisivo degli elettori regionali che fanno capo all’impresentabile Giovanni Toti (fuoriuscito da Forza Italia). La sua candidatura, alla fine, risulta per quello che è: un’infantile tattica salviniana per mettere in difficoltà i veri padroni del vapore-Italia, ossia la sinistra e il PD, cercando di approfittare della retorica del “presidente donna”. Tattica fallita, umiliazione per la povera Casellati, con l’esito che si è visto: un gioco condotto solo da politici di sesso maschile per ottenere un quadro iper-conservativo.
«Non tutte le donne sono uguali».
Tuttavia qualche effetto utile, per lo meno dalla nostra ottica, la mossa di Salvini l’ha ottenuta. La candidatura della Casellati ha fatto ribollire il pentolone con i panni sporchi del femminismo e la lordura è venuta subito a galla. Se ne fa portavoce Laura Boldrini che, interpellata dai giornalisti fuori dal Palazzo, tra una supercazzola e l’altra se ne esce con una frase che resterà scolpita nella storia del femminismo italiano. Relativamente all’ipotesi Casellati al Quirinale sbotta: «non tutte le donne sono uguali». Sei parole che in un colpo mettono a nudo la vera e profonda natura del femminismo che predomina in Italia. Il nemico è sempre e sicuramente l’uomo (bianco ed etero), ma insieme a lui anche un certo numero di donne. Quali? Be’, facile: quelle che non sono di sinistra o non appartengano genericamente all’ala progressista. Una piegatura settaria di un ideale che si vorrebbe e si afferma come universale: il femminismo è per la parità di tutte le donne rispetto allo strapotere e alla violenza maschile. Un piffero. Una ipocrisia imbarazzante. Non tutte le donne sono uguali, dice colei che, insieme a tante altre, si riempie da anni la bocca di parole come “uguaglianza” e “pari opportunità”. Alla fine quella della Boldrini e di tutto il femminismo è un’uguaglianza puramente orwelliana: tutte le donne sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre. E sono le donne “progressiste”. Giorgia Meloni, Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Hoara Berselli e tante altre lo sanno bene: per loro non c’è pietà, il loro essere donne non le rende comunque degne di difesa dai feroci insulti sessisti che ricevono quotidianamente.
Ben intesi, la Boldrini comunque argomenta il suo sfondone: la Casellati è sempre stata di parte, ha una storia di adesione al partito di Berlusconi, quindi non può essere “figura terza”, come richiesto per il ruolo di Presidente della Repubblica. Nel suo delirio, la Boldrini forse non si rende conto che sta parlando del Presidente del Senato, eletta dal Senato stesso proprio come figura terza e di equilibrio, che opera come tale ormai da anni. In pratica la Boldrini delegittima con disinvoltura e in un colpo solo la seconda carica dello Stato, oltre alla narrativa femminista. Non solo: ogni Presidente della Repubblica ha militato in un partito o in un governo, prima di assumere la carica al Quirinale. Mattarella è stato ministro con D’Alema, Amato, addirittura con Andreotti e Goria. Un democristiano prima, ora appartenente al PD, quindi “di parte” anche lui. Ma è chiaro che, nel cortocircuito complessivo, oltre a contraddire l’asserito principio di parità e uguaglianza del femminismo, la Boldrini innesca, con l’usuale spocchia e arroganza dei progressisti, un secondo concetto discriminatorio: chi è di sinistra è buono, sa essere “terzo” e giusto, mentre chi è fuori da quell’area no, è brutto e cattivo a prescindere. E così, mentre anche oggi “il primo presidente donna” lo eleggiamo domani, raccogliamo in due giorni tutta la carica virale ipocrita della politica italiana e in particolare del femminismo. Ieri rispetto alla coerenza con cui ottenere diritti controbilanciati da doveri anche gravosi, oggi rispetto alla narrazione buona, equilibrata, paritaria ed egualitaria della sua retorica, che muore due volte tra le braccia delle istituzioni. Prima con la bocciatura della candidatura della Casellati, poi con la clamorosa e vergognosa ammissione di una delle massime leader del femminismo politico nostrano: «non tutte le donne sono uguali».