Bisogna avere fiducia nella giustizia, dicono… Probabilmente lo ripeteranno ancora una volta all’inaugurazione dell’anno giudiziario (26 gennaio in Cassazione, 28 gennaio presso le Corti d’Appello). Poi si susseguono le notizie di casi irrisolti, riaperti dopo decine e decine di anni grazie ai ricordi di una bambina o altre circostanze fortuite che nulla hanno a che vedere con le capacità investigative dei nostri brillanti inquirenti. L’inchiesta su Manuela Orlandi, riaperta dopo 40 anni, è il caso più noto tra quelli del secolo scorso; la cattura di Matteo Messina Denaro è il caso più noto tra quelli recenti, superlatitante a casa sua per 30 anni mentre gli inquirenti lo cercavano in mezzo mondo. Identica sorte per Riina e Provenzano, altri due super ricercati ovunque che non si sono mai mossi da casa.
Tuttavia vi sono decine di altri casi, meno strombazzati dai media ma non per questo meno penosi. È di ieri la notizia dell’omicidio di un’infermiera morta nel 1995, Antonella Borrelli, caso irrisolto dopo una serie imbarazzante di cantonate e riaperto grazie a una donna – bambina all’epoca dei fatti – che racconta ad un giornalista le confidenze ricevute anni addietro dalla madre. Il giornalista riferisce in Procura e tutto ricomincia. Dice l’articolo: “Ha raccontato che quando avvenne l’omicidio, sua madre le confidò di avere forti sospetti su un primario, morto negli anni scorsi. La madre rivelò alla figlia che dietro all’omicidio poteva esserci un ricatto da parte della vittima che, vedova, con i debiti lasciati dal marito e i figli da crescere, aveva sempre bisogno di soldi e poteva aver preteso denaro dal primario per non rivelare la loro relazione.”
Le “brillanti operazioni” degli inquirenti.
Non ci sono prove né che davvero esistesse una relazione tra il primario e l’infermiera, né che si fosse interrotta, né che l’infermiera avesse preteso denaro per tacere, né che l’amante l’abbia uccisa per non essere ricattato. Non c’è nemmeno la possibilità di torchiare le persone citate dalla nuova supertestimone, sono ormai deceduti sia la donna che parlò alla figlia dei propri sospetti, sia il primario presunto amante-assassino. Comunque è una nuova pista e le indagini si riaprono, anche se la nuova pista non è certo dovuta alla bravura degli inquirenti che, all’epoca, non hanno pensato a verificare quali “voci di corridoio” circolassero in ospedale. Avevano il DNA dell’assassino quindi pensavano di avere la soluzione in tasca, le prove generali di quanto sarebbe successo anni dopo con “ignoto uno” a Mapello. Peccato che, dice sempre l’articolo “il DNA dell’assassino non ha dato corrispondenza con i sospettati. Anzi ne ha scagionato uno ma troppo tardi: poco prima che arrivassero i risultati, travolto dalla vergogna per i sospetti, si era ucciso lanciandosi nel vuoto: era il muratore Ottavio Salis, il suo trapano fu usato per uccidere ma l’attrezzo era lì perché stava ristrutturando il basso. Poi gli inquirenti misero nel mirino una gang di strozzini, un cliente abituale, un uomo che si presentò insanguinato in un albergo della zona, un marocchino autori di omicidi a Torino”. Un gigantesco buco nell’acqua, caso chiuso. Poi dopo 27 anni si riapre per i ricordi di una bambina.
Sempre ieri si è chiuso un altro caso che gli inquirenti non hanno saputo risolvere: l’omicidio di Stefano Ansaldi, medico ucciso a coltellate a Milano. Non bisogna disperare, forse nel 2050 un bambino dirà che lo zio gli ha raccontato che forse una badante conosceva un’amica della moglie del portiere dello stabile, lei andava da una chiromante che tramite i fondi di caffè aveva intuito chi uccise il medico. Mai perdere le speranze, c’è sempre tempo per una “brillante operazione”. Come il caso in cui le indagini su un ‘ndrina calabrese non riescono a cavare un ragno dal buco, poi arriva un pentito che per entrare nel programma di protezione o per ottenere uno sconto di pena, dice: “andate a scavare nel casolare diroccato dietro al porto di Gioia Tauro, se mi date carta e penna vi faccio un disegnino”. Et voilà, ecco che accurate indagini fanno scattare la brillante operazione grazie alla quale vengono trovate armi e droga.
Bisogna avere fiducia nella giustizia.
Oppure il caso in cui due bambini scompaiono a Gravina di Puglia e, visto che gli inquirenti non sanno che pesci pigliare, pigliano il pesce solito, il colpevole ideale: arrestano il padre. Non riescono a trovare i corpi, il dubbio non è se il padre il abbia uccisi – quella è una granitica certezza – il dubbio è sul luogo in cui ha nascosto i cadaveri. Setacciati campi e corsi d’acqua, boschi e grotte anche con sommozzatori e unità cinofile. Niente da fare, i corpi non si trovano ma il caso è risolto ugualmente, basta incriminare il padre per occultamento di cadavere oltre che per duplice omicidio. Poi, dopo mesi, un bambino cade casualmente nel pozzo di accesso ad una serie di gallerie sotterranee e trova i poveri resti di Ciccio e Tore, i fratellini scomparsi ed “ammazzati dal padre” secondo gli inquirenti. Non sono stati uccisi, sono morti di stenti perché gli Sherlock Holmes nostrani non li hanno cercati dove in effetti erano, a 100 metri dal centro del paese. Forse a malincuore, ma il padre hanno proprio dovuto scarcerarlo. La cronaca è piena di casini macroscopici tra errori giudiziari, omissioni, sviste, incapacità, pressapochismo, superficialità e convincimenti ferrei ma sbagliati. Però bisogna avere fiducia nella giustizia.