«Per essere infilzati da una lancia / vanno bene; son carne da cannone. / Buoni a riempire quanti altri più in gamba / una fossa. Via, via, ragazzo mio, / son uomini, son uomini mortali!», afferma Sir John Falstaff nell’opera di William Shakespeare, Enrico IV, scena prima, quarto atto. Allo stesso modo lo scrittore francese Chateaubriand, ai tempi delle guerre napoleoniche, dichiara: «si era giunti a un tal punto di disprezzo per le vite degli uomini e per la stessa Francia, da chiamare i coscritti la materia prima e la carne da cannone». Cosa si può dire sulla guerra che non sia già stato detto? Noi uomini siamo carne da cannone. Non solo in guerra, sempre: quando si tratta di spegnere un incendio o una centrale nucleare in fiamme, di lavorare su un traliccio di alta tensione a quasi 100 metri di altezza, di fare delle cavie per medicinali in sperimentazione o quando si deve marciare come soldati in esercitazione sul deserto verso un fungo atomico. Non solo gli uomini adulti, qualsiasi uomo, a qualsiasi età, sempre: quando esisteva il suffragio maschile (censitario o universale) i soldati venivano reclutati comunque anche quando non avevano nemmeno l’età per votare. Il servizio militare obbligatorio ha sempre contemplato l’eventualità di chiamare ai ranghi uomini al di là dell’età in funzione delle necessità dello sforzo bellico, cioè quando i soldati adulti non bastano si preferisce mandare sul fronte bambini maschi di 13 e 14 anni, come fecero il governo nazista o la Repubblica durante la guerra civile in Spagna, invece che donne di 25 o 30 anni. Per questo motivo, perché l’uomo è carne da cannone (a qualsiasi età), muore molto più spesso della donna di cause non naturali. Tra questi eventi tragici la guerra è quello più micidiale.
La morte tronca definitivamente le possibilità di realizzare, di autorealizzarsi e di creare dell’individuo. In questo aspetto la guerra è un’ottima macchina di morte, centinaia di silenziosi e vasti cimiteri militari in ogni angolo del mondo ne sono la prova. Le biografie di questi uomini, i cui nomi sono incisi sulle croci, terminano bruscamente nella data iscritta subito dopo il nome. Tra i soldati deceduti, loro sono i più fortunati: a loro memoria i loro cari possono recarsi a mettere fiori sulle loro tombe. Molti altri sono stati seppelliti, in fosse comuni, o mai seppelliti, senza un nome. Durante la Prima guerra mondiale la Francia perse un milione e mezzo di uomini. Quattrocentomila, quasi un terzo, morirono senza nome, sconosciuti. In omaggio di questi martiri anonimi, il governo francese sancì l’idea della Tomba al Milite (o Soldato) Ignoto, accolse la salma, a caso, di uno dei tantissimi sconosciuti caduti sui campi di battaglia. Al contrario della biografia di Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare nel noto brano di Virginia Woolf, e delle biografie della maggior parte delle donne nella storia dell’umanità, che presentano una fine certa e nota ai loro cari, gli ultimi momenti nelle biografie di questi centinaia di migliaia di uomini dispersi o caduti sui campi di battaglia rimangono incerti. Anzi, probabilmente non interessano a nessuno. E questa è una tra le tante situazioni storiche asimmetriche a danno degli uomini sistematicamente ignorate dalla narrazione femminista: quante donne nella storia dell’umanità sono state seppellite senza nome rispetto al numero degli uomini così seppelliti?
Tutti gli uomini sono carne da cannone.
Le guerre non provocano soltanto la morte. Sono la causa di prigionie, torture, menomazioni e ferite insanabili, fisiche e psichiche. Esempio per antonomasia del danno fisico è lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes. Nella leggendaria battaglia di Lepanto, Cervantes perse la mano sinistra, dal che gli derivò il soprannome, molto noto in Spagna, “el manco di Lepanto” (monco di Lepanto). Il religioso spagnolo Sant’Ignazio di Loyola è il fondatore della Compagnia di Gesù, i gesuiti che così tanta importanza hanno avuto nelle storia di Occidente. Durante la difesa dell’assedio di Pamplona fu gravemente ferito. Il suo stato era grave e più volte si temette per la sua vita. Solo dopo dolorosissime operazioni, egli poté ristabilirsi pur non potendosi reggere bene sulla gamba, a causa della quale rimase zoppicante per il resto della vita. Nei giorni in cui fu costretto a un’esasperante immobilità, rimase a letto leggendo libri religiosi, e qui avvenne la conversione, da soldato degli uomini a soldato di Dio. La guerra, le sofferenze, le ferite condizionarono definitivamente la sua vita, e la storia del mondo. Anche se rimasti incolumi fisicamente, la guerra può lo stesso influenzare pesantemente le nostre vite, come ben sanno i reduci del Vietnam e quelli della Prima guerra mondiale nelle trincee, affetti di gravi turbe psichiche. Nella nota opera teatrale Tamburi nella notte (1919) di Bertolt Brecht, il protagonista, Andrea Kragler, un reduce di guerra scomparso da quattro anni, è dato per morto. Dopo anni di prigionia torna a casa per trovare una situazione completamente cambiata. La guerra si è persa, la società intera giace nella miseria. Ha perso il lavoro, la casa, la sua fidanzata è ormai promessa sposa a un borghese, si ritrova con un futuro senza prospettive. In che modo la guerra condiziona la vita, la produzione artistica e le realizzazioni dei giovani uomini come Andrea Kragler?
Per una coincidenza del caso – avevo già previsto di trattare l’argomento sulla guerra all’interno di questa serie e da qualche settimana la guerra è diventata la notizia d’attualità più rilevante. Per quanto ci riguarda, questi sono i fatti sulla guerra in Ucraina: 1. Nel decreto di mobilitazione generale il governo di Ucraina ha vietato agli uomini ucraini di età compresa tra i 18 e i 60 anni di lasciare il paese. 2. I media ci informano dell’evacuazione della popolazione civile (bambini, donne, anziani) attraverso il confine. 3. Le truppe ucraine di confine controllano le macchine e gli autobus perché non ci siano uomini, i treni vengono fermati prima del confine e gli uomini fatti scendere, anche quando sono gli unici accompagnatori di un minore. 4. L’UE accoglie tutti gli ucraini che fuggono dalla guerra. È evidente che per i media e per l’UE gli uomini tra i 18 e i 60 anni non sono popolazione civile, gli uomini non sono compresi nella parola “tutti”. La sorte di un ucraino adulto in territorio di guerra attualmente non ha molte alternative: a) arruolarsi e combattere presso le truppe ucraine; b) rischiare di essere essere ucciso dai russi se non cede le armi; c) finire nelle prigioni ucraine se si rifiuta di combattere. Purtroppo nulla di nuovo. La coscrizione maschile obbligatoria è, ed è sempre stata, la più tragica forma di schiavitù e discriminazione di tutta la storia a danno dell’uomo, e la più ignorata da tutti. Se cercate presso qualsiasi Ong quale siano le “forme moderne di schiavitù” troverete elencati il traffico di esseri umani, la servitù per debiti, lo sfruttamento sessuale, i lavori forzati e i matrimoni forzati. Il servizio militare obbligatorio non viene mai incluso. Per tutte le Ong, se lo Stato costringe il cittadino ad adoperare una pala si tratta di schiavitù, se lo costringe invece ad adoperare un fucile, malgrado le conseguenze possano essere molto peggiori, allora non lo è. Si tratta a mio avviso di uno dei misteri più insondabili sull’umanità che abbia mai trovato: come mai nessuna Ong riconosce il servizio militare obbligatorio come una forma di schiavitù? Per quanto riguarda la coscrizione maschile in Ucraina, di fronte a questo trattamento talmente ingiusto e asimmetrico, nessun paese occidentale si è attivato per evacuare gli uomini adulti dal paese, nessun paese occidentale ha condannato l’evidente discriminazione del governo ucraino, i mezzi stampa non hanno nemmeno menzionato la questione. Per tutti, gli uomini sono carne da cannone.
Il posto dell’uomo è la trincea.
Le femministe invece si sono espresse, e lo hanno fatto sulla stessa linea di Hillary Clinton: «Le donne sono sempre state le principali vittime della guerra. Le donne perdono i loro mariti, i loro padri, i loro figli in combattimento». A proposito del conflitto in Ucraina, la ministro spagnola delle Pari Opportunità, Irene Montero, ha affermato che «noi donne siamo quelle che soffriamo di più in tutti i conflitti bellici», e la sua collega di partito, Isabel Serra, ha lamentato che Putin «combatta il progresso dei diritti delle donne e i diritti LGBTi». Questo 8 marzo, festa della donna, nessuna voce femminista si è alzata per chiedere la parità tra le ucraine e gli ucraini. Anche qui nulla di nuovo. In quasi due secoli di storia il movimento femminista non ha mai rivendicato che le donne fossero reclutate in guerra alla pari degli uomini. Nel XX secolo, mentre gli uomini americani combattevano le guerre in ogni parte del mondo in difesa della patria e dei valori americani, le femministe americane difendevano solo se stesse. La presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan ha diradato ogni dubbio, semmai ci fossero stati, di quanto le femministe bramassero di combattere per le sorelle afghane. Infatti, nel brano di Virginia Woolf, nella storia di Judith, la guerra non esiste, Judith non la conosce, in un’epoca nella quale lo stato di guerra era la norma. Per Virginia Woolf il problema di Judith, e delle donne in genere, non è la guerra. D’altra parte Venere è sposata con Vulcano, ma ama Marte, dio della guerra. Per Venere la guerra non è un problema. Le donne non combattono in guerra ma inducono gli uomini a farle, il vantaggio è evidente: nessuna donna o gruppo di donne nella storia ha respinto il bottino di guerra acquisito sul campo di battaglia, tutti i cittadini e le cittadine degli imperi militari ricavavano ben volentieri i benefici del benessere dalle conquiste dei loro eserciti. Oggigiorno i tempi sono cambiati, ma solo per le donne. Se nella tradizione, dove l’uomo sosteneva che “il posto della donna è la cucina”, la donna sosteneva che “il posto dell’uomo è la trincea, a difendere con la vita la tranquillità della donna in cucina”, nei tempi moderni dove l’uomo sostiene “il posto della donna è quello che sceglie lei”, la donna sostiene “il posto dell’uomo è la trincea, a difendere con la vita il diritto di libera scelta della donna”.