Sul caso Ciro Grillo in realtà non c’è molto da dire. C’è un’accusatrice, presunta vittima di stupro, e un accusato (in realtà più di uno), presunto autore dello stupro, punto. Per noi la questione finisce lì, fin tanto che non c’è un regolare dibattimento che si conclude con un giudice che, valutato tutto, emette una sentenza. Dalla quale l’accusato può essere riconosciuto colpevole e giustamente obbligato a pagare il prezzo della sua colpa, oppure può essere mandato assolto. Solo a quel punto può aver senso aprire un dibattito. Chiaro che le sentenze non si contestano, ma è doveroso analizzarle e sottoporle a critica. Tutto abbastanza semplice, insomma. Ma tutto si complica se l’accusato è il figlio di un ricco leader politico, ancor più se quest’ultimo ha un formidabile seguito online e proprio sulla rete decide di pubblicare un video dove sbrocca, deragliando da ogni normale regola comunicativa. In questo contesto, pur ponendo questioni più che legittime, tutto finisce inevitabilmente in vacca.
Due sono gli elementi che, in questa vicenda, oscurano alcuni aspetti che sarebbero degni di considerazione. Il primo elemento è il terrificante effetto distorsivo della presenza della politica (anzi della “partitica”) all’interno della questione: Grillo ha alleati e avversari e ciò finisce per contare più del merito della vicenda. Così si hanno i primi che tacciono o minimizzano, anche se magari dissentono dal merito degli argomenti, e i secondi che attaccano ad alzo zero, anche se sarebbero possibilisti nel considerare le questioni poste dall’ex comico. Che di suo, ed è il secondo elemento, non fa un buon servizio né a suo figlio né al dibattito pubblico mostrando su scala nazionale le vene del collo gonfie, il volto paonazzo, i pugni sbattuti sul tavolo, per di più dicendo sciocchezze come il fatto che il figlio Ciro sia su tutti i giornali (a differenza di altre vicende, quella di suo figlio ha avuto una bassissima copertura mediatica finora). A questi si aggiunge poi un terzo elemento accessorio, ma pure altamente inquinante: certa informazione mainstream di stampo femminista che, scegliendo accuratamente singole parti della vicenda, porta astutamente la discussione là dove meno possono emergere contraddizioni.
Il fuoco di sbarramento delle femministe.
Proviamo allora a ripulire lo scenario dagli elementi inquinanti. Facciamo finta che non si tratti di Ciro Grillo ma di un tizio qualunque, e che non ci sia di mezzo il padre o la politica. Cosa resta? Una giovane che accusa un giovane di violenza sessuale e quest’ultimo che avanza dubbi sulla fondatezza delle accuse e sull’operato dei giudici. Dice, nel merito: mi hai denunciato otto giorni dopo il fatto e in quegli otto giorni hai vissuto con tranquillità, facendo kitesurf eccetera. Fossi stata davvero turbata nel profondo avresti denunciato subito e non saresti stata tanto serena. Ai giudici poi dice: in un’Italia dove si parla di sanzionare il catcalling, dove vige il Codice Rosso, dove la violenza contro le donne è spacciata come un’emergenza pari al covid (anzi di più), cincischiate per due anni a indagare su un reato su cui c’è ben poco da indagare. Esiste un video, forse esiste un referto medico, sicuramente esiste la parola della presunta vittima, che contro ogni logica di diritto in questi casi fa prova. Che altro c’è da indagare? O si va a processo o non ci si va. E di solito ci si va rapidamente, per evitare che il presunto stupratore, nel caso fosse un seriale, torni a delinquere. Dunque perché aspettare tanto?
Argomenti folli, inconsistenti? Pazzie e vaneggiamenti? Come tali tutto il rumore attorno alla vicenda vogliono farli passare, con diverse strategie di comunicazione. Chi è interessato agli aspetti politici sposta il focus sul noto giustizialismo grillino, diventato garantismo ora che c’è di mezzo il “delifino”. E tuttavia si tratta di un aspetto irrilevante nel merito della questione puramente penale. Chi è interessato a che non si enfatizzino le contraddizioni della vicenda, cioè le femministe, parla della presunta vittima come vittima a tutti gli effetti e del presunto colpevole come già colpevole, estendendo la sua colpa a tutto il genere maschile. L’hanno fatto la Murgia («c’è un Beppe Grillo in ogni famiglia italiana»), la Gruber e molte altre, immancabili quando si tratta di mistificazione femminista. La scrittrice sarda, nella sua articolessa minacciosa su Repubblica, accenna (rasentando la comicità) a quanto sia difficile per una donna in Italia denunciare, come se non esistesse una gigantesca rete di assistenza per le donne (e solo per loro) e non fossimo soffocati dal mantra martellante “denunciate, denunciate, denunciate”. Ma soprattutto la Murgia centra tutto sulla questione degli otto giorni spesi alla presunta vittima per presentare denuncia, sorvolando però sulla condotta della ragazza in quel lasso di tempo, che invece è un fattore dirimente.
Pretese senza logica e fuori dal diritto.
Perché è indubbiamente vero che chi subisce uno stupro può aver bisogno di tempo per rendersi consapevole e decidere di denunciare. Il trauma è enorme e la psiche umana talvolta è lenta a reagire. La legge le concede dodici mesi, un’infinità: anche la più insicura tra le donne, se davvero è stata violata e ferita nel profondo, può in quel lasso di tempo maturare consapevolezza e decidere di denunciare. Il messaggio femminista però è diverso, è di tipo #MeToo: oltre al fatto di dover credere sempre ciecamente alla parola femminile, la donna non dovrebbe avere limiti di tempo per denunciare uno stupro. Un po’ come certe attricette sul viale del tramonto che per un po’ di ribalta denunciano dopo vent’anni il produttore che le aveva rese ricche e famose in passato. No, non può e non deve funzionare così, per un semplice motivo: dopo un tot di tempo certi reati non si possono più provare in nessun modo, e la prova è un elemento centrale in quella cosa fastidiosa e odiatissima dalle femministe che è lo Stato di Diritto. Principio verso cui si approcciano sempre in modo eversivo: una delle loro maggiori rappresentanti in Italia, Giulia Blasi, ad esempio, sul caso Grillo arriva a scrivere che anche in caso di archiviazione della denuncia l’accusatrice resta vittima, dunque implicitamente l’uomo accusato di stupro resta colpevole.
Tutto questo rumore di fondo finisce per (o serve a) oscurare il senso proprio del messaggio, pur delirante e inaccettabile nei modi, di Beppe Grillo. Che dice una cosa semplice: è strano che una vittima di stupro passi una settimana in allegria prima di denunciare, dopo aver subito abusi traumatizzanti. Ed è strano che la magistratura dorma così tanto su un reato così grave come la violenza sessuale. Coniugando le due stranezze, Grillo allude che la magistratura sia in difficoltà a portare avanti l’accusa ed esorta i giudici a darsi una mossa (come dargli torto?). Il sottinteso è che qualcuno stia usando il caso impostandolo “a orologeria”, come spesso capita nelle inchieste giudiziarie che coinvolgono la politica ma, come detto, gli aspetti politici qui a noi non interessano. Interessa piuttosto il cuore del messaggio di Grillo, per dire che sì, a tutti gli effetti è strano che la ragazza abbia vissuto serenamente gli otto giorni dopo il presunto stupro e che i giudici si siano girati i pollici finora. Lo si è detto: se è più che doveroso lasciare del tempo a una vittima di stupro per maturare la decisione di denunciare, ma pretendere di considerare normale che quel tempo venga speso in attività ludiche o semplicemente “normali” no, quello è chiedere troppo, in termini di logica e di diritto. Non è un caso che moltissimi processi per violenza sessuale si concludano con l’assoluzione perché l’accusato porta la prova (messaggini, foto o altro) che l’accusatrice dopo il “fattaccio” lo cercava ancora, magari affettuosamente, o viveva in modo del tutto normale. Ci vuole fegato e faccia tosta per sostenere che, anche in queste circostanze, si debba condannare l’accusato.
L’obiettivo è che non se ne discuta.
Non solo: il cuore dell’intervento di Grillo ha senso e appare legittimo anche e soprattutto sulla base di alcuni dati. Negli ultimi 10 anni la media annua delle denunce per stupro esitate in condanna si aggira attorno al 37% (dati ISTAT). Vale a dire che il restante 63% (un’enormità!) viene archiviato come infondato o esita in assoluzioni che continuano ancora oggi a risultare frequentissime. Di quelle che finiscono in condanna, moltissime vedono come colpevoli persone non italiane, che spesso commettono il reato in contesti di degrado o solitudine (ciò non sminuisce la loro colpa ovviamente, stiamo solo contestualizzando i dati). Molte altre denunce di stupro, poi, tendono curiosamente a colpire uomini ricchi o benestanti. Difficile trovare alla sbarra per violenza sessuale un metalmeccanico o un operatore di call-center, a meno che costoro non si stiano separando conflittualmente dalla moglie, in quel caso tutto è possibile. Su tutto, insomma, aleggia la casistica registrata in passato da diverse operatrici (donne) di giustizia, che quantificarono tra l’80 e il 90% la quota di false denunce di donne a carico di uomini per questioni di violenza. Una casistica depositata agli atti del Senato e debitamente dimenticata.
Con ciò non diciamo che l’accusatrice di Ciro Grillo è una furbacchiona o che il ragazzo è innocente. Questa è roba da giudici: aspettiamo una sentenza, con le sue motivazioni, dopo di che commenteremo. Diciamo invece che nel merito l’opinione di Beppe Grillo è più che legittima e ha più di un elemento a renderla abbastanza fondata da darle dignità di oggetto di discussione. Dignità che invece le viene negata dall’inquinamento della politica, dalla folle modalità comunicativa di Grillo e da tutto l’infame circo criminalizzante del mainstream femminista che coglie l’occasione per alzare sul tema una cortina fumogena fatta di slogan e concetti senza senso e, quelli sì, criminali, come la presunta e dilagante “cultura dello stupro”. A cui evidentemente, numeri alla mano, è sottomessa anche tutta quella magistratura italiana che archivia e assolve uomini accusati di stupro nel 63% dei casi, sebbene sia composta al 70% da giudici donne. Insomma, al di là delle giaculatorie del femminismo suprematista nazionale e del rumore politico, dunque andando al cuore dello sfogo di Grillo, ce ne sarebbero di contraddizioni su cui discutere, in attesa che i giudici dirimano ufficialmente e nel merito la vicenda di Ciro Grillo. Ma l’obiettivo di tutta la cortina fumogena è proprio questo: che non se ne discuta, o al massimo che se ne discuta restando su binari prestabiliti e soprattutto innocui per il femminismo, la sua ideologia e il suo circuito d’interessi.