Beatrice Venezi in qualche momento del passato deve aver vinto un concorso o superato un esame per “Direttore d’orchestra”. Così era definito il ruolo e così lei ci tiene a essere chiamata: “Direttore d’orchestra”, non “direttrice”, né tanto meno “direttora”. A microfoni aperti e in diretta nazionale da Sanremo esprime a chiare lettere la sua preferenza, frutto di una libera decisione che, in un mondo normale, susciterebbe un silenzioso rispetto. Vuol essere chiamata così? Ebbene, chiamiamola così. Farlo non solo non comporta alcun sacrificio, ma anzi corrisponde alla realtà delle cose: il suo lavoro è svolgere il ruolo e i compiti del direttore d’orchestra, dunque che problema c’è? Il problema c’è per la Gestapo in gonnella che, tra i mille gravissimi problemi del paese, tiene costantemente nel mirino le più insignificanti quisquilie della vita pubblica, pronta in ogni momento a fucilare sul posto tutti coloro che non si conformino ai suoi diktat. E così accade per la povera Venezi, che sui social e, cosa più grave, sui media ufficiali, viene criticata aspramente per la sua asserzione. Talune associazioni e certe politicanti da quattro soldi addirittura le intimano di scusarsi: «così vanno in fumo anni lo lotte per le donne», dicono, a sprezzo del ridicolo. Nel frattempo solo pochissime redazioni di giornale si adeguano alla sua decisione, quasi tutte continuano irrispettosamente a definirla “direttrice”.
Eppure qualcosa non torna in tutto questo. Buona parte di questa Gestapo è formata da quell’ondata “intersezionale” del femminismo che si schiera con decisione per i diritti LGBT e in particolare a favore di tutte le modifiche del linguaggio imposte dalla necessità di non ferire la suscettibilità di questo o quell’appartenente a uno degli innumerevoli “generi” in cui oggi ci si può riconoscere. Se una persona asserisce di sentirsi un piatto di bucatini all’amatriciana, è obbligo chiamarla con pronomi che essa indichi come i più adeguati per la sua autopercezione, anche se ciò va contro la realtà fattuale. Chi non lo fa è un qualcosofobo, uno scarto della società, qualcuno da appendere a testa in giù. In quel caso e in tanti altri simili, dunque, l’affermazione individuale, pur se contro la verità, ha preminenza su tutto. Dobbiamo tutti “far finta” che sia come dice il tizio X o Y, sennò costui o costei se ne hanno a male. Discutibile o meno, è una regola intoccabile che il predominante femminismo intersezionale impone al mondo (sebbene con la fronda interna minoritaria delle femministe tradizionali). Ma è una regola che però non vale più se l’asserzione non piace alla Gestapo, ad esempio se una donna afferma di voler essere appellata secondo il ruolo (al maschile) che ricopre. Improvvisamente allora l’obbligo di rispettare la decisione altrui, di non ferire la suscettibilità di chi si percepisce in un determinato modo, non conta più nulla. Ecco dunque il caso Venezi che, per paradosso, non sarebbe scoppiato se il direttore d’orchestra avesse detto di essere transessuale e di percepirsi come un uomo, e per questo di preferire la dicitura “direttore”. In quel caso sarebbe diventata un’eroina e non la traditrice da additare al pubblico ludibrio e da obbligare a inginocchiarsi e a chiedere scusa. Scuse che, per fortuna, la Venezi si è guardata bene dal fare (finora).
Insomma che già con questa vicenda la Gestapo rosa si è impantanata nella grammatica e nella libertà individuale altrui. Uno scivolone notato da tutti: sotto i post con cui i vari quotidiani hanno tentato di manganellare la Venezi la prevalenza di cittadini che la appoggiavano e sfanculavano le fanatiche femministe è stata schiacciante. Che costoro siano solo una fastidiosissima, rumorosa e monomaniacale minoranza l’ha ben dimostrato un sondaggio dell’Unione Sarda: «ha fatto bene la Venezi a fare la sua precisazione?». In risposta una valanga di sì (85%) e tanti saluti ai fanatismi da manicomio. Che per stare in piedi, quando il capriccio psichiatrico non funziona, spesso si avvalgono di vere e proprie falsificazioni, con l’aiuto attivo dei media. È il caso, uscito in concomitanza con la polemica sanremese, del lemma “donna” della Treccani. Secondo un gruppo di teste pensanti del femminismo nostrano, con componenti che vanno da Laura Boldrini a Lory Del Santo, la definizione del famoso dizionario è sessista, perché associa il termine ad altri più deteriori come cagna, troia, e altri. La questione, al solito, monta sui social, spinta dal fatto che il maggiore produttore di fake news italiano in ambito mainstream, ovvero “La Repubblica”, dà alle stampe una lettera congiunta di questo improbabile think tank mobilitato contro l’uso sessista della lingua promosso da un dizionario tanto blasonato. Il problema è che, come detto, si tratta di una falsità, una fake news. Basta aprire la Treccani e andare a leggere il lemma per rendersene conto. Se non la si ha in casa, è sufficiente ascoltare il breve video che l’insegnante e linguista Yasmina Pani ha sentito la necessità di realizzare in risposta a quest’ennesima boiata ideologica.
Nel video, che postiamo qui sopra, la Pani smonta alla radice la mobilitazione boldrinesca, definendola né più né meno che una stupidaggine. La Treccani non fa che il suo mestiere: dà la definizione di “donna”, dopo di che elenca gli usi più comuni che si fanno del termine. Tra i molti c’è anche “donna di malaffare”, i cui sinonimi sono a tutti gli effetti parole offensive come cagna, troia, eccetera. Dunque non è vero che la Treccani definisce la donna in quei modi: semplicemente, com’è suo dovere, spiega i vari usi che se ne fanno, tra cui ci sono anche quelli offensivi. E non accade diversamente per il lemma “uomo”, anche lui con i suoi bei significati offensivi, di cui però non frega nulla a nessuno. Eppure non è questo ennesimo doppio standard l’aspetto più grave. La Pani nota come la Treccani sotto il lemma “donna” senta il dovere di specificare che gli usi offensivi elencati non intendono essere giustificativi di maltrattamenti o insulti alle donne. Una nota che, ovviamente, per il lemma “uomo” non c’è. Tutto ciò è grave perché porta a concludere che abbiamo in Italia (ma capita ovunque, sia chiaro) una lobby in grado di forzare uno strumento per sua natura neutrale e compilativo a scusarsi preventivamente per qualcosa che in ogni caso è fuori per sua stessa natura dalle sue intenzioni. Un aspetto spaventoso, che contiene in sé due grandi e potenti veleni: il primo è l’intervento totalitario sulla cultura diffusa, roba che si è vista nei peggiori regimi del passato; il secondo è l’imposizione, anche a livello di dizionario, del teorema della persecuzione, che definisce le donne sempre vittime e gli uomini sempre carnefici, laddove questi ultimi sono i creatori di una lingua sessista costruita apposta per opprimere le prime. Yasmina Pani coglie perfettamente questo aspetto ed esorta tutti a fare muro contro la falsità e la conseguente fake news. Noi ci siamo. Siateci anche voi. Perché in ballo non c’è soltanto la libertà di parola, ma la libertà in senso stretto.