No, Onorevole Alessandro Zan, i bambini che percepiscono una discordanza fra il proprio genere e il proprio sesso non vanno, e riporto le sue testuali parole che ora sembra voler ritrattare, «aiutati in un loro percorso di transizione». Lo affermo, senza che venga preso come punto focale dell’argomento, da adulto che è stato uno di questi bambini: giocavo con le bambole, mi piaceva avere un aspetto efebico, insistevo per portare i capelli lunghi, avevo la fissa per un cartone animato in cui il protagonista diventava una ragazza e ho adottato il nome di “Nadia”. Se fossi nato al giorno d’oggi laddove si sostiene che i bambini abbiano diritto all’autoaffermazione della propria identità di genere, come lei auspica possa essere anche in Italia, sarei stato incoraggiato a transizionare. Eppure eccomi qui a trenta e passa anni: un banalissimo maschio cisgender.
A quanto pare le mie sensazioni, anche quando accompagnate da disagio, dubbi, fantasie di avere un corpo diverso, erano parte del fisiologico processo di autoscoperta. Chi lo avrebbe mai detto? Ma cercherò, per l’appunto, di usare un argomento più convincente dell’aneddoto personale per render l’idea di quanto sia folle cercare di incentivare la transizione nei bambini che manifestino sintomi riconducibili a una disforia di genere. È vero che, tipicamente, gli adulti che decidono di essere riassegnati riportano di aver cominciato a “sentirsi trans” fin da bambini. Ciò ha perfettamente senso, ed è fuor dubbio che, nel loro caso, iniziare il percorso prima gli faciliterebbe la vita. Questo dato però, da solo, nulla dice sui ben più numerosi casi di chi invece si sente, o meglio, si “sentirebbe” trans nel corso dell’infanzia, salvo poi vedere questa sensazione sparire una volta finito lo sviluppo e trovarsi a proprio agio nel sesso di appartenenza.
Confido che il suo attivismo non l’abbia trascinata così lontano dalla realtà.
Stando ai dati che abbiamo da diversi studi, fra il 60% e il 90% dei bambini con sintomi disforici finisce per lasciarseli alle spalle una volta adulto, il più delle volte scoprendosi semplicemente omosessuale. E anche riconoscendo i limiti metodologici di questi studi, assumendo quindi di non poter sapere a priori se e con che probabilità un bambino con questi sintomi vorrà o meno essere identificato nell’altro sesso in futuro, resta da decidere verso quale direzione vogliamo rischiare di sbagliare come società. Gli strumenti della probabilità e della statistica ci possono venire in aiuto: nello specifico, i concetti di ipotesi nulla e alternativa, errore di primo tipo e di secondo tipo. Dovrebbe averli a mente, dopotutto è un ingegnere, ma li spolvererò brevemente qui di seguito.
L’ipotesi nulla, ipotesi di default, o ipotesi zero, è ciò che si ritiene vero in assenza di elementi che indichino il contrario. L’ipotesi alternativa, o ipotesi di ricerca, è quella che vorremmo verificare. Un errore di primo tipo consiste nel rigettare l’ipotesi nulla quando è vera, uno di secondo tipo nel non rigettarla quando è falsa. È ragionevole in questo scenario considerare come ipotesi nulla, di partenza, quella che un bambino non sia trans e come ipotesi alternativa, da verificare, quella che lo sia. Perché non il contrario? Beh, giusto qualche milione di anni di ininterrotta e funzionale riproduzione sessuata nel corso dell’evoluzione della nostra specie e la consequenziale prevalenza estremamente bassa della disforia di genere sul totale della popolazione. Se al netto di ciò, onorevole, ritiene comunque che in mancanza di ulteriori informazioni considerare un bambino trans sia la corretta ipotesi di default, temo che nulla di ciò che possa dire sia in grado di farla ricredere. Confido tuttavia che il suo attivismo non l’abbia trascinata così lontano dalla realtà.
La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Data questa premessa, l’errore di primo tipo consiste in un falso positivo: identificare come trans un bambino che non lo è e indirizzarlo verso una transizione precoce. L’errore di secondo tipo in un falso negativo: fallire nell’identificare come trans un bambino che lo è e negargli una transizione precoce. Come ho detto, dobbiamo decidere verso quale direzione vogliamo rischiare di sbagliare come società. E dobbiamo farlo considerando tante cose: i problemi cardiovascolari causati dai farmaci ormonali, i rischi connessi ad un eventuale intervento chirurgico, la sostanziale incognita dei danni a lungo termine degli inibitori della pubertà per via della scarsissima qualità degli studi a riguardo e, non ultimo, il fatto che l’efficacia della terapia di transizione e riassegnazione nel dare sollievo alla salute mentale delle persone trans è tutt’altro che solidamente dimostrata (se ne parla qui e qui). Alla luce di ciò, vogliamo propendere verso un errore del secondo tipo, quello verso il quale propendiamo attualmente, le cui ramificazioni sociali consistono nel costringere un numero comunque estremamente esiguo di bambini che beneficerebbero di un intervento invasivo ad aspettare alcuni anni per poter determinare con certezza la loro situazione? O vogliamo propendere verso un errore del primo tipo, le cui ramificazioni sociali consisterebbero nel sottoporre bambini perfettamente in salute che stanno solo attraversando una fase a quanto detto poco sopra, con tutti i rischi fisici e psicologici connessi, dandogli peraltro la facoltà di mutilarsi in modo permanente, compromettere potenzialmente la propria fertilità e decidere come vivere la propria intera vita sociale e sessuale adulta ad un’età in cui nemmeno sono in grado di determinare che cosa vorranno fare da grandi o esprimere consenso ad un singolo rapporto intimo?
La nozione stessa che a una persona debba essere riconosciuta un’identità sulla sola base della sua autodeterminazione è già di per sé estremamente infantile e semplicistica, per quanto mossa da spirito di altruismo. Siamo davvero pronti alle conseguenze di infantilizzarla ulteriormente, riconoscendo pure a chi ancora nemmeno si pulirebbe dopo essere andato in bagno se non fosse obbligato a farlo la facoltà di autodeterminarsi per mezzo di procedure così rischiose e invasive sulla propria naturale fisiologia e anatomia, di cui potrebbe negli anni scoprire di non aver affatto bisogno? Voler aiutare chi soffre è un intento lodevole, senatore. Ma non va perseguito perdendo di vista i danni collaterali che rischia di portarsi dietro. La strada per l’inferno, e lo dico da ateo, è lastricata di buone intenzioni.