La Fionda

“Avvocato, mio figlio non mi vuole vedere”

di Avv. Rosaria Petrolà. Sono queste del titolo le parole che sempre più spesso ci sentiamo rivolgere dal genitore, cosiddetto “non collocatario”, quello cioè presso il quale il figlio è collocato per la minor parte del tempo. Si fa riferimento agli incontri genitori/figli nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio e che per prassi ormai consolidata nei provvedimenti dei Tribunali distinguono tra genitore collocatario e genitore non collocatario, sebbene la legge non faccia questa distinzione. L’art. 337 ter C.C., al suo primo comma al contrario dice che «Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori» e «il giudice valuta prioritariamente la possibilità che i minori restino affidati ad entrambi i genitori», determinando i tempi e le modalità della loro presenza «presso ciascun genitore». Da questo inciso normativo, che sancisce il principio di bigenitorialità da ormai 15 anni, si è scivolati verso la “collocazione” in funzione del maggior tempo trascorso presso uno dei due genitori, sempre tenendo presenti le esigenze del minore e le necessità dei genitori. La permanenza maggiore o minore presso uno dei due (che nel 90% dei casi è la madre) determina altresì – in funzione del reddito di ciascuno – la quantificazione del c.d. mantenimento indiretto del genitore c.d. non collocatario.

La maggiore presenza del minore presso una dei due però, che a causa del ruolo primario nei primi anni di vita del figlio è la mamma, determina l’influenza “orientata” della stessa nei processi formativi della volontà del minore. In altre parole, gli accesi conflitti spesso in atto tra i due coniugi vengono traslati sul minore, che sempre più spesso diventa “bottino di guerra” e viene strumentalizzato al fine di estraniare il genitore meno presente. Il figlio così, subisce un processo di “adultizzazione”, diventa ipercritico e denigratore nei confronti di uno dei genitori (denominato, appunto, “alienato”), perché l’altro (“genitore alienante”) lo ha influenzato in questo senso. Come dicono usualmente i padri: “gli ha fatto il lavaggio del cervello.” Questa problematica, più che riguardare la diagnosi di sindromi universalmente disconosciute dai manuali di psichiatria, riguarda il piano dei comportamenti, in particolare degli illeciti. «Cosa fare, quindi», chiede il genitore alienato, «se mio figlio non vuole vedermi?». Sebbene sia astrattamente legittimo dare ascolto alla voce dei più piccoli, è altrettanto vero che bisogna ascoltare anche la voce del genitore alienato. In ogni caso il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul conflitto genitoriale, ha l’obbligo di indagare sulle ragioni che portano un minore a non voler incontrare il proprio genitore. Ha l’obbligo di capire perché nel giro di poche settimane quello che era il genitore con cui andava al parco o giocava a pallone improvvisamente non è più desiderato e addirittura respinto.

alienazione parentale

Le relazioni disfunzionali tra il minore ed il genitore rifiutato.

Il concetto di “alienazione genitoriale” gradualmente è stato negli anni riconosciuto anche in ambito giuridico, trovando diffuso ingresso nelle aule dei Tribunali, ove i giudici, in alcuni casi, hanno adottato severi provvedimenti per contrastare quel tipo di condotte. Non potendo dunque parlarne come di una patologia, ha detto la Cassazione, possiamo parlare di comportamenti che non vanno trascurati. Va in questa sede ricordato che alla luce delle plurime sentenze dei Tribunali di merito e di legittimità (cfr.: decreto Tribunale di Milano del 13.10.2014, Cass. civ n.7041/2013 nonché recentemente Cass.civ. n.6919/2016) questa fenomenologia comincia a essere opportunamente valorizzata con l’accordo pressoché unanime di avvocati e psicologi. Segnaliamo di recente cosa è accaduto in un caso portato all’attenzione del Tribunale di Brescia che si è pronunciato in merito con la sentenza n. 815 del 22 marzo 2019, una sentenza storica in materia di alienazione genitoriale. Al centro c’era un caso di separazione ad alto tasso di conflittualità fra due coniugi, con reciproche contestazioni anche relativamente all’affidamento della figlia minore. Nel caso in esame la madre, sin dall’inizio del procedimento, ha sostenuto l’inadeguatezza del padre a rivestire il ruolo di genitore, chiedendo l’affidamento esclusivo della figlia, con disciplina del diritto di visita al padre in forma protetta. Gli iniziali provvedimenti provvisori avevano stabilito l’affidamento condiviso della minore con suo prevalente collocamento presso la residenza della madre per convivere con la stessa, disciplinando il regime di visita del padre.

Il rapporto tra la minore e il padre, inizialmente positivo, andava progressivamente peggiorando, fino ad arrivare ad un rifiuto generale della minore a trascorrere del tempo con il padre. La situazione era connotata da particolare gravità perché la madre aveva sporto querela nei confronti del marito, accusandolo di aver tenuto comportamenti inappropriati in danno della minore nei tempi di permanenza presso di lui (in particolare lo accusava di toccarla nelle parti intime). Conseguentemente il giudice disponeva gli incontri protetti con il padre e disponeva una consulenza tecnica psicologica al fine di approfondire le cause del deterioramento del rapporto padre-figlia, oltre all’analisi delle capacità genitoriali delle parti. Venivano, altresì, incaricati i Servizi Sociali territorialmente competenti per avviare un monitoraggio familiare. La CTU accertava nel caso appena segnalato tutti i sintomi caratterizzanti l’alienazione, ravvisando nella condotta materna l’origine del deterioramento del rapporto padre-figlia e affermando in modo condivisibile, che gli otto sintomi tipici dei comportamenti alienanti utili «a valutare i punti critici nelle relazioni disfunzionali tra il minore ed il genitore rifiutato» erano tutti presenti.

alienazione parentale

La tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità.

Nel dettaglio si rilevava: 1) la campagna di denigrazione, nella quale il bambino mima e scimmiotta i messaggi di disprezzo del genitore alienante; 2) la razionalizzazione debole dell’astio, per cui il bambino spiega le ragioni del suo disagio nel rapporto con il genitore alienato con motivazioni illogiche, insensate o superficiali; 3) la mancanza di ambivalenza, per cui il genitore rifiutato è descritto dal bambino “tutto negativo”, mentre l’altro genitore è “tutto positivo”; 4) il fenomeno del pensatore indipendente: il bambino afferma che ha elaborato da solo la campagna di denigrazione del genitore; 5) l’appoggio automatico al genitore alienante, quale presa di posizione del bambino sempre e solo a favore del genitore alienante; 6) l’assenza di senso di colpa; 7) gli scenari presi a prestito, ossia affermazioni che non possono ragionevolmente venire da lui direttamente; 8) l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato. Nel dettaglio si rilevava come la madre, a dispetto di alcuni rimproveri, dal contenuto meramente formale, rivolti alla figlia quando la stessa rifiutava il padre (di essi danno atto i Servizi sociali nelle ultime relazioni depositate), la sentenza dice che «il reale comportamento della madre – con cui la bambina ha stretto un “conflitto d’alleanza” è stato costantemente teso a limitare l’accesso della figlia al padre».

Al contrario il comportamento del padre nei confronti della bambina veniva valutato positivamente, tanto da dubitare dell’attendibilità della denuncia materna, sfociata poi nell’archiviazione del procedimento penale da parte del GIP di Brescia in quanto priva di riscontri probatori. In definitiva il Tribunale ha disposto l’affido esclusivo al padre con diritto di visita della madre alla presenza di un educatore individuato dai Servizi Sociali, al fine di «limitare possibili condizionamenti della madre e garantire il graduale consolidamento del rapporto padre-figlia». A sostegno delle proprie decisioni il Tribunale ha citato le conclusioni delle indagini svolte e ha richiamato un importante principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza dell’8 aprile 2016 n. 6919, in base al quale «tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena». Senza alcun dubbio una sentenza coraggiosa che interrompe una prassi giurisprudenziale, e che non può affatto dirsi superata nemmeno alla luce della recentissima sentenza della Suprema Corte la n.13217/2021, che nel semplice negare la scientificità della PAS – cosa già fatta dalla stessa Suprema Corte – non può dimenticare il principio di diritto stabilito prima secondo cui «in tema di affidamento di figli minori, quando un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, e a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena».



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