Anna, una bella ragazza, colta e intelligente, è finita chissà perché e chissà come nelle mani di un folle, drogato, violento, perduto, sociopatico che la prende riversa su un tavolo, senza accorgersi della sua umiliazione, la trascina in una assurda rapina. Lei assiste impotente e sconcertata al massacro di un pover’uomo costretto a confessare il pin del suo bancomat, come se non ci fossero dei limiti al prelievo dei soldi e una telecamera connessa alla polizia, che arriva e fa fallire la loro follia. Braccati, fuggono, tornano a casa, c’è un agente KGB che la aspetta. Uccide il balordo con l’indifferenza degli impuniti, di chi sa che tutto gli è concesso perché è lui l’essenza della giustizia, poi parla con Anna e la ingaggia nella CIA russa, perché è bella, alta, figlia di un ufficiale e parla molte lingue. Le promette la libertà dopo 5 anni di onorato servizio.
Dopo un anno di addestramento entra in servizio. La sua capa è un cinico personaggio indurito dalla vita e dall’orrido lavoro che le tocca fare. La manda con due pistole scariche a terminare un boss mafioso con un esercito di sgherri. Malgrado lo scherzo delle pistole, l’invincibile donna li stermina tutti, con le mani, con i piedi, con le loro stesse armi, come Bruce Lee ai tempi d’oro, ma senza i suoi muscoli e una vita di addestramento. Lei, con le sue braccine esili e un solo anno di addestramento, fa volare uomini di 100 chili e li abbatte con un pugno o un calcio in pancia. Non ci riesce però in 5 minuti, e la capa stronza l’abbandona correndo via con la sua vecchia e lurida Lada d’altri tempi. Anna vince, preleva il telefono e lo consegna all’orrida boss che subito le affida altri compiti. Uno dopo l’altro cadono gli obiettivi del KGB: sono spie, trafficanti d’armi, uomini d’affari scomodi, mai politici o intellettuali che macchierebbero la fedina morale dell’eroina delle libertà personali.
Cosa sogna Anna? Un mondo migliore? No di certo.
La scoprono gli americani che, invece di tumularla subito, la convincono a fare il doppio gioco. Il premio è sempre la libertà, una casetta alle Hawaii e una pensione, il sogno di qualunque borghesotto americano. Gli americani vogliono che Vassiliev, il cattivissimo capo dei servizi segreti russi, venga eliminato, e lo deve fare lei, dopo di che: congedo anticipato, pensione e libertà. Ma la capessa ha già scoperto il doppio gioco e invece di farla ammazzare la obbliga a riferire a lei le intenzioni della CIA e, alla notizia dell’esecuzione del suo capo, gioisce, «Vassiliev è ormai merce avariata, fa’ quello che ti dico e ti prometto che sarai libera». A lei, invece, basterà la scrivania del grande capo. E la nuova mattanza ha inizio: Anna, da sola, dopo Vassiliev, fa fuori l’intero KGB di Mosca. I soldatini cadono a decine come birilli sulla pista del bowling, tutti maschi naturalmente, uomini inutili, senza nome e senza dignità: sono solo maschere, divise, mostrine, berretti; tutti sacrificabili, la libertà della donna val bene una mattanza, di uomini naturalmente.
Poteva essere un bel film d’evasione, come tanti. C’è azione, colpi di scena, ritmo, bellezza, un po’ di sesso senza tante complicazioni, ma quando prendi coscienza del sottile condizionamento che ti impone, potresti assumere lo sguardo arrabbiato e affranto delle troiane di Euripide sulla patria distrutta, i templi incendiati, gli uomini uccisi e Astianatte strappato al petto della madre Andromaca e precipitato dalle alte mura perché crescendo non vendichi la morte del padre Ettore. Allora tutto appare sotto un’altra luce: i soldatini si animano, prendono corpo, dietro di loro ci sono madri, padri, mogli, figli, legami spezzati, cuori feriti, sogni infranti e il sottile veleno del male che inquina la terra finalmente appare. Cosa sogna Anna? Un mondo migliore? No di certo, solo un’eterna vacanza alle Hawaii e in nome di questo ogni mattanza, ogni menzogna e ogni tradimento è giustificato.
«Su, misero, solleva la testa».
Alla donna guerriera l’America affida la liberazione dal senso di colpa per le guerre in Vietnam, in Cambogia, in Iraq, in Afghanistan, il Libia e le mille microguerre in Africa e altrove. La libertà della donna, la sua carriera il suo successo giustificano tutto, non c’è nessun ritorno di civiltà da promettere, la guerra delle donne è un valore in sé, il valore assoluto di questo tempo. Perciò gli Americani si affannano a censurare Omero nei licei accusandolo falsamente di promuovere modelli maschilisti e guerrieri. No, l’arte non esalta la guerra ma mostra sempre l’insensatezza della sua violenza e spesso affida allo sguardo femminile la condanna della guerra e la tragicità delle sue folli gesta, ed è questo che l’America, che finalmente ha sedato il femminismo oppositivo e antisistema degli inizi trasformandolo in carrierismo e divorzi miliardari, non può più sopportare. Guai a ritrovare lo sguardo di Ecuba che maledice Ulisse empio e ingannatore trasformando i vittoriosi Argiri in vili assassini e schiavisti, dissacratori avidi e corrotti. I vincitori sulla terra rimangono sconfitti nel cielo dell’etosfera.
Né potrebbero ascoltare i lamenti di Andromaca alle porte Scee che implora Ettore di abbandonare la battaglia e non lasciare vedova una moglie e orfani i suoi figli. Gli Americani vogliono Amazzoni e Valchirie e non sacerdotesse piangenti e imploranti che spaccano il cuore del guerriero indebolendolo. L’importante è trovare il nemico giusto, moralmente impresentabile, antropologicamente sacrificabile: il maschio non allineato. Il sistema è salvo, gli uomini umiliati. Non è vero soltanto che la società si femminilizza, sono le donne che si maschilizzano. La nuova amazzone non sopporta un Ettore che dice ad Andromaca di tornarsene a casa perché «spetta la guerra agli uomini». Le Valchirie vogliono combattere, almeno nei film, e falcidiare schiere di omaccioni inetti, lenti in battaglia e rudi in amore, inutili nel mondo che verrà. Simbolicamente, nella guerra psicologica contro il genere maschile, gli ometti caduti sotto i colpi di Anna, sono tutti gli uomini ingannati, derubati, abbandonati, falsamente accusati, calunniati, deprivati dei loro diritti e della stessa dignità sotto il nuovo matriarcato, e che non si permettano di ribellarsi perché non hanno chance, troppo deboli, troppo stupidi, troppo brutti per il regno dei cieli. E invece no, noi con Ecuba diremo: «Su, misero, solleva la testa» (Le Troiane – Eschilo). Ma forse no, parlare di matriarcato in realtà non è corretto: non è materno il sistema che si sta imponendo, né lo sguardo che giudica la storia in questi tempi. È solo un modo per indicare un potere femminile ostile agli uomini.