Così dichiara l’On. Anna Lisa Baroni (Forza Italia): «Le donne che denunciano minacce e violenze vanno tutelate, assegnando loro la stessa protezione assicurata ai collaboratori di giustizia. Aiuti economici compresi». Non se ne può più. Non se ne può più dei numeri gonfiati, dell’allarme fittizio pompato ogni giorno, dell’emergenza più emergenza di tutte, dell’equazione denuncia-uguale-colpevolezza dell’accusato, dei centri antiviolenza da finanziare, della teoria secondo la quale con i soldi il fenomeno regredisce. Riferiamo testualmente uno stralcio del comunicato a firma On. Anna Lisa Baroni: «Attivazione tempestiva di una rete di vigilanza e protezione, supportata dal sostegno economico per la sfera privata (assicurando condizioni di vita equivalenti a quelle pre-denuncia, spese di alloggio, per i figli, tutela legale) e la salvaguardia della posizione lavorativa: possibilità di trasferimento, reinserimento, finanziamenti agevolati per proseguire attività imprenditoriali». Tradotto: soldi, soldi, soldi. Non è dato di sapere se chi si affanna a fare tali proclami sappia realmente di cosa sta parlando. Sorvoliamo sull’errore del riferimento normativo (la legge sulle misure di protezione per i collaboratori di giustizia è del 2018, non del 1968); è lecito chiedersi se chi lancia certe proposte abbia idea della copertura finanziaria che ci vorrebbe, ma soprattutto delle conseguenze nefaste per la cittadinanza e per l’intasamento dello stesso sistema giudiziario, visto il fenomeno dilagante delle false accuse.
Caso concreto: una donna denuncia il proprio ex e – secondo la entusiastica visione di Gelmini & friends – scatta il programma di protezione. Soldi per il personale delle scorte (legge n° 6, 11 gennaio 2018, art. 5) o comunque per la vigilanza speciale, soldi per garantire le condizioni di vita precedente alla denuncia (legge n° 6, 11 gennaio 2018, art. 6), quindi soldi per un alloggio, soldi per i figli, soldi per la tutela legale, soldi per le attività imprenditoriali, assegno periodico in caso di impossibilità a svolgere attività lavorativa, soldi per le spese sanitarie, soldi per un indennizzo forfettario a titolo di ristoro per il pregiudizio subito. Ogni donna che dichiara di aver subito violenza rischierebbe di costare alle finanze pubbliche cifre stratosferiche che potrebbero raggiungere le centinaia si migliaia di euro per alcuni casi. Secondo una stima prudente il costo medio delle misure di protezione potrebbe aggirarsi attorno ai 45/50.000 euro, con picchi di molto superiori. All’anno. Cadauna. Attualmente vengono presentate all’incirca 60.000 denunce ogni anno, è verosimile che gli incentivi comportino un incremento delle denunce poiché esattamente questo è l’intento: denuncia, non sei sola, fuggi dal pericolo, liberati dell’aguzzino, ecc. Tuttavia, anche ipotizzando una curva stabile delle denunce, servirebbero diversi miliardi ogni anno (non milioni, miliardi) per fare fronte alle voci previste dalla legge n°6 del 2018, alla quale verrebbero assimilate le donne che denunciano una violenza. Forse si potrebbe fare col PIL della Cina, ma noi non siamo la Cina. Tuttavia la copertura finanziaria è il problema minore, la domanda più inquietante è: se poi le denunce si dimostrano infondate, cosa accade? Non è affatto una eventualità residuale, nel nostro Paese le denunce che esitano in condanna del reo sono circa il 10% del totale, la maggior parte si conclude con un nulla di fatto tra archiviazioni, proscioglimenti in istruttoria ed assoluzioni. Scavalcando l’evidenza dei numeri, un parallelismo tossico continua incessantemente ad alimentare l’equivoco di fondo costruito insinuando che dietro ogni denuncia vi sia certamente un reato. Believe women, ogni donna che denuncia deve essere creduta. Se lei denuncia una ragione deve esserci, che motivo avrebbe per mentire? La cronaca giudiziaria racconta una realtà diversa:
Una fiducia non concessa nemmeno ai pentiti.
I casi elencati sono esempi estratti da archivi annuali che registrano migliaia di false accuse, e rappresentano esclusivamente la punta dell’iceberg: i soli casi dei quali si ha notizia in cronaca. Un altro dato sul quale riflettere: la mole di denunce è il termometro usato abitualmente per quantificare le violenze subite dalle donne. Nessuno, all’esito della fase istruttoria, si preoccupa di stornare dal totale delle denunce l’enorme numero di archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni, né tantomeno il numero di denunce palesemente false che quindi rimangono tutte nel grande calderone utilizzato per lanciare l’allarme sul fenomeno “violenza sulle donne”. È sospetto, ad altro tacere, l’accanimento ideologico di chi si ostina a negare l’evidenza dei fatti, evitando di riconoscere che il fenomeno delle false accuse esista e protestando contro chi lo riconosce. Come già sottolineato, si attesta attorno al 90% la mole di denunce infondate che però, prima che ne venga dimostrata l’infondatezza in tribunale, attiverebbero comunque le misure di protezione. In caso di accuse dimostratesi prive di fondamento giuridico, le decine di migliaia di euro ricevute per affitti, assegni mensili, sostegni all’imprenditoria, spese sanitarie, ristori e tutto il resto, vanno restituite?
In sostanza, chiederemmo all’On. Baroni, sono concepite come misure efficaci a proteggere le reali vittime, o chiunque finga di esserlo? Prima dell’iter inevitabile giudiziario, com’è possibile distinguere una reale vittima da una che vittima non lo è affatto? La differenza tra il collaboratore di giustizia e la donna che denuncia una violenza è sostanziale: un pentito non è tale fino al momento in cui viene arrestato e poi, da detenuto, decide di collaborare. Prima confessa i propri crimini e poi accusa i correi, offre riscontri, fornisce prove, fa luce su casi insoluti, svela gli intrecci economici del malaffare, fornisce indicazioni agli inquirenti per trovare nascondigli di armi, droga, raffinerie, latitanti. Una donna che denuncia di essere vittima di violenza usufruirebbe invece delle misure di protezione prima ancora che vi sia alcun riscontro su quanto denunciato. L’On. Baroni scrive testualmente: «Le donne che denunciano minacce e violenze vanno tutelate, assegnando loro la stessa protezione assicurata ai collaboratori di giustizia». Basta la denuncia, senza attendere l’esito dei processi. Questa fiducia cieca ai collaboratori di giustizia non viene concessa.
E agli uomini le stesse tutele?
Per riconoscere ad un pentito lo status di “collaboratore” e i benefit correlati servono i riscontri, non ci piove; non si ottiene protezione (e soldi) per sé e per i propri familiari semplicemente dicendo di sapere dove si nasconde un superlatitante. Un collaboratore può essere premiato, un millantatore no. Per le donne invece questo distinguo, peraltro fondamentale, non esiste. Basta la parola. Fiducia incondizionata nella denuncia femminile, come se nessun uomo nella storia criminologica italiana fosse mai stato accusato ingiustamente. Carmen Llera, nel suo recente endorsement per Barbara Palombelli, ha lucidamente sottolineato che in Italia gli strumenti di tutela per le donne esistono ancora prima di diventare vittime. La deriva forcaiola dalla Giustizia italiana si slatentizza nella considerazione delle denunce come se fossero reati accertati. Ormai da tempo l’asse del sistema giudiziario si è spostato dall’oggettività alla soggettività; per reati come stalking, maltrattamenti e violenza sessuale è sufficiente che una donna “si senta” perseguitata, maltrattata o violentata per erogare immediatamente misure cautelari all’accusato: ammonimento, allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla presunta vittima, braccialetto elettronico, anche gli arresti domiciliari. Poi con calma, piano piano, senza fretta, si verifica se in effetti in quanto denunciato vi fossero o no gli estremi di reato, se la denunciante se avesse percepito – erroneamente ma in buonafede – come gravi degli episodi in realtà blandi, se avesse esagerato gonfiando la narrazione, se avesse inventato tutto in aperta malafede al solo scopo di rovinare il malcapitato di turno.
Intanto però le misure limitative della libertà personale dell’accusato sono vigenti, tanto si può sempre dirgli “scusa tanto, ci siamo sbagliati”. In alcuni casi le accuse si rivelano false in maniera talmente evidente che i PM non possono esimersi dall’inviare gli atti in Procura per verificare se ci siano gli estremi dei reati di calunnia, procurato allarme, false dichiarazioni all’AG, falsa testimonianza. Fino ad oggi. In futuro, secondo Baroni, Gelmini & Co., oltre alle misure limitative per l’accusato dovranno essere previste anche misure di protezione per le accusatrici. E quando i tribunali accerteranno l’infondatezza delle accuse, ci si potrà limitare a dire “scusa tanto cocca, ci siamo sbagliati”, o si dovrà aggiungere “ora restituisci i fondi pubblici dei quali hai indebitamente usufruito”? Ultima considerazione sulla faziosità della proposta. La dichiarazione testuale dell’On. Baroni: «le donne che denunciano minacce e violenze vanno tutelate». E gli uomini? Una proposta che, nemmeno fosse la prima volta, dimentica metà della popolazione. Tanto abbiamo scritto sull’esistenza delle vittime maschili di violenza e sulla accanita volontà istituzionale di ignorarle, non volersene occupare, non voler nemmeno riconoscere che esistano. Sono milioni, ma anche se esistesse una singola vittima maschile di violenza, potrebbe accedere al programma di protezione semplicemente denunciando la donna che percepisce come aguzzina? Fare domande non è reato, perlomeno non ancora. Ogni persona che denuncia, a prescindere dal genere, deve essere creduta; che motivo avrebbe per mentire?