Cronologicamente, Angela Davis appartiene al femminismo della seconda ondata. Assieme alla femminista Bell Hooks, è stata precorritrice di un’anima del femminismo che ha conquistato molta notorietà negli ultimi anni: il femminismo intersezionale. Attivista afroamericana antirazzista e femminista, militante del Partito comunista e del Black Panther Party (Pantere Nere), autodichiarata lesbica dal 1998, professoressa del Dipartimento di Studi di genere (Feminist Studies) all’Università di Rutgers e del Dipartimento di Storia della Coscienza (History of Consciousness – adoro questo nome “Storia della Coscienza”, non lo trovate anche voi meraviglioso?) all’Università di California, Santa Cruz, è stata nominata dalla rivista Time la donna dell’anno 1971 nell’edizione “100 Women of the Year” e tra le 100 persone più influenti al mondo nel 2020.
Tra le altre numerose onorificenze ricevute, è stata premiata con il Premio Lenin per la Pace (URSS) 1977-1978 (chiamato Premio Stalin per la Pace dalla nascita fino al 1956), a Mosca. Infatti Angela Davis è stata un’acerrima difensora delle teorie comuniste. In Donne, razza e classe alle pagine 289-290 scrive: “La cura dei bambini e la preparazione dei pasti dovrebbero essere socializzate, il lavoro domestico dovrebbe essere industrializzato e tutti questi servizi dovrebbero essere facilmente accessibili alla classe lavoratrice”. Tradotto: la famiglia, annoso nemico del femminismo, va disarticolata. A questo copioso curriculum può aggiungere di essere stata nella lista dei dieci criminali più pericolosi ricercati dall’FBI. Arrestata nel 1970, fu accusata di rapimento, cospirazione e omicidio per la morte del giudice Haley. Per una misteriosa coincidenza del caso, Angela Davis aveva comperato a San Francisco, solo due giorni prima dell’incidente, alcune delle armi adoperate durante l’attacco al Tribunale e al successivo rapimento. Tra queste c’era anche l’arma che sparò a Haley. Dopo il suo arresto ebbe inizio una campagna internazionale a favore della sua liberazione. Davis fu assolta con formula piena.
Tutti siamo probabilmente soggetti a discriminazione.
Tra le opere scritte, forse la più nota di Davis è Donne, razza e classe (Women, Race & Class, 1981, Edizioni Alegre, Roma, 2018), una dichiarazione d’intenti già nel titolo. La lezione principale di questo libro è quella di abbandonare l’idea di un soggetto donna omogeneo, nella convinzione che qualsiasi tentativo di liberazione, per essere realmente universalista, deve considerare la storia e la stratificazione delle esperienze e dei bisogni dei diversi soggetti in gioco. Si legge nella prefazione, a pag. 16: “Il libro di Davis ci invita, piuttosto, ad abbandonare il ʻprovincialismoʼ di presupposti e analisi basati su un soggetto ʻdonnaʼ presuntamente omogeneo, emergente da una storia di oppressione comune e condivisa”. L’idea di concepire le donne come classe, come una massa indistinta di donne vittime soggette al patriarcato, è nata nel XIX secolo con il femminismo borghese e ha predominato fino ad oggi all’interno dell’ideologia femminista: “la donna è una classe sociale sfruttata e oppressa dall’uomo” (1979, Diccionario ideológico feminista). Da sempre il femminismo istituzionale l’ha assunta come propria, motivo per il quale ministeri e governi classificano la donna in maniera omogenea come ʻsoggetto deboleʼ da tutelare. La contestazione di quest’idea non è originale di Davis, il femminismo proletario l’aveva già contestata ottanta anni prima circa (Kulisciova, Kollontaj). Per il femminismo intersezionale e per il femminismo proletario non tutte le vittime sono qualitativamente uguali, entrambi stabiliscono una gerarchia all’interno dell’universo delle vittime. La sostanza è la stessa, cambia il metodo: il femminismo intersezionale mette in evidenza le supervittime, tutte le donne sono vittime, ma alcune sono molto più vittime delle altre – ad esempio le donne nere; il femminismo operaio segnala le sottovittime, non tutte le donne sono vittime, alcune sono tutt’altro che vittime – ad esempio le donne borghesi.
Cos’è il femminismo intersezionale? Per rispondere a questa domanda mi faccio aiutare da una nota associazione femminista, Non una di meno: “La parola intersezionale fa riferimento proprio alla geometria: il punto in cui due rette si intersecano si chiama intersezione. Una retta orientata, cioè che ha un sopra e un sotto, un nord e un sud, si chiama asse, come gli assi del piano cartesiano. Gli assi servono a stabilire ordine e gerarchie: se mettiamo due numeri in fila lungo un asse, sappiamo sempre dire qual è il più grande e qual è il più piccolo. Allo stesso modo, tra le persone è facile dire quali sono più importanti di altre: i maschi lo sono più delle femmine, le persone bianche più delle persone nere, le persone cis-gender più di quelle trans-gender, chi ha un corpo abile più di chi possiede delle disabilità… e così via. Ognuna di queste gerarchie è definita da un asse che divide le persone in base a una caratteristica: il sesso, la razza, l’identità di genere, l’abilità, ecc. Si chiamano assi di oppressione, perché la relazione tra gli individui che si trovano ai due estremi dell’asse è caratterizzata dalla dinamica oppressore-oppressa: da un lato, c’è la persona privilegiata, spesso inconsapevole dei propri privilegi, e più o meno inconsapevolmente propensa a difenderli, anche con la violenza. Dall’altro, c’è la persona che conta meno, che viene discriminata, esclusa e che è più a rischio di subire violenza”. Intuitivamente possiamo dunque affermare che tutti siamo probabilmente soggetti a una doppia, o tripla, o quadrupla, o quintupla discriminazione a seconda delle varie (e infinite!) categorie biologiche, sociali e culturali come il sesso, il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, la casta, l’età, la nazionalità, la specie e altre innumerevoli possibili identità.
La parzialità genera necessariamente la mancanza di empatia.
Cosa c’è di sbagliato nella teoria dell’intersezionalità? A parte il fatto che si tratta di una teoria inapplicabile, che la vita non è matematica e non possono essere attribuiti valori numerici a sentimenti ed esperienze personali vissute in una scala infinita di possibilità, e a parte questo, nulla… se la teoria fosse applicata parimenti su tutti, ma non è così. Se dal di fuori la teoria sembra conferire la necessaria flessibilità a qualsiasi individuo per scorrere la propria posizione sull’asse oppresso-oppressore, il femminismo intersezionale assegna una rigida e inamovibile classificazione al mondo degli oppressori. In parole di Non una di meno: “Ora, se seguiamo i vari assi di oppressione dal lato dei privilegiati, incontriamo un personaggio ben preciso: un uomo cis ed eterosessuale, bianco e benestante, adulto, con un corpo funzionale, e tutta una serie di stereotipi accessori che lo caratterizzano (per esempio, ama il calcio, ha un carattere forte ed estroverso, ha avuto moltissime amanti, ma ora sta mettendo su famiglia con una bella fidanzata/moglie)”. E ancora: “Binarismo di genere quindi significa che se hai il pene sei uomo, e ti viene imposto un ruolo ben definito, se hai la vagina sei donna, e hai un altro ruolo altrettanto definito. Se sei uomo domini, se sei donna subisci. Pacchetto completo, prendere o prendere”. Assegnazione definitiva quindi. Può essere un uomo vittima di una donna oppressora? Secondo la teoria intersezionale, sì. Secondo il femminismo, no. Il femminismo stabilisce l’oppressione storica e attuale delle donne (tutte) da parte degli uomini (tutti) all’interno di un sistema denominato patriarcato. Un uomo non può essere vittima di una donna. Faccio un semplice esempio: assegno un punteggio forfettario di 1 per le caratteristiche di discriminazione e di 0 per le caratteristiche di oppressione: una donna (1) bianca (0) borghese (0); un uomo (0) nero (1) proletario (1). Da questo punteggio di vittimizzazione si deduce che questa donna (1) opprime questo uomo (2), risultato imbarazzante e dunque assurdo perché negherebbe la credibilità della teoria femminista e della sua applicazione a livello istituzionale da oltre mezzo secolo. La sofferenza dell’uomo non può essere mai e poi mai maggiore di quella della donna, il femminismo rappresenta quindi la negazione della sofferenza maschile. In conclusione, l’espressione femminismo intersezionale è un ossimoro.
Tornando a Angela Davis – ciò vale anche per il femminismo proletario –, sorge la stessa perplessità: perché non applica lo stesso ragionamento che applica al soggetto ʻdonnaʼ, al soggetto ʻuomoʼ? Se la figura della donna vittima non è omogenea, perché la figura dell’uomo oppressore deve rimanere omogenea? Se non tutte le donne sono vittime, ma anche oppressore, e non tutti gli uomini sono oppressori, ma anche vittime, allora la teoria femminista non ha ragion di esistere. Ma ciò significherebbe uccidere la propria fede. E per far zittire la logica Angela Davis, come tutte le femministe, si avvale di uno strumento che il femminismo adopera con incredibile disinvoltura e in maniera magistrale: una parzialità spesso scandalosa, che è stata già denunciata in altre occasioni. La parzialità genera necessariamente un altro mostro, la mancanza di empatia. Nell’intervento della prossima domenica offrirò degli esempi sulla parzialità e la mancanza di empatia di Angela Davis, cioè sulla sua non applicazione dell’intersezionalità quando riguarda gli uomini.