di Alessio Deluca. Uno degli spettacoli più divertenti disponibili nel teatro della società odierna è assistere alle femministe in cortocircuito. Non è difficile provocarne uno: tali e tante sono le contraddizioni che esse assommano, nel loro affastellare prese di posizione incompatibili, che basta davvero un nonnulla per fargli andare in vaporizzazione quei pochi neuroni che il fanatismo ha lasciato loro funzionanti. Si pensi al fatto che, mediamente, le femministe sostengono la necessità di un’emancipazione della donna dal ruolo e dalle funzioni domestiche e materne, soprattutto in quanto ostative di percorsi di carriera di successo e stili di vita indipendenti. All’ora però di rendersi indipendenti, ad esempio a seguito di una separazione, l’ottenimento del patrimonio e di parte del reddito dell’ex marito rimane occasione ghiotta e un diritto per cui battersi strenuamente. Esternamente all’ideologia vera e propria delle femministe ci sono poi gemellaggi che gridano vendetta: in linea di massima la femminista media è anche solitamente immigrazionista, contro le religioni, progressista, a meno di non dover improvvisamente tacere davanti ai dati degli stupri commessi quasi esclusivamente da stranieri, o mostrarsi indulgenti verso l’Islam o iper-conservatrici quando si tratta di proteggere i propri privilegi.
In questo pastone dove trova casa tutto e il contrario di tutto ha fatto irruzione una figura monumentale di nome Amy Coney Barrett, la giudice proposta di recente da Donald Trump alla Corte Suprema USA, al posto della defunta Ruth Bader Ginsburg. Basta ricapitolare chi la Coney Barrett sia per capire quanto la sua stessa esistenza possa essere deflagrante tra le femministe. Anzitutto è una donna che, a 48 anni suonati, mantiene una bellezza e un fascino straordinari. È cattolica romana praticante e non ne fa alcun mistero. Coerentemente a ciò, è anche radicalmente anti-abortista. Non è nata ricca, anzi è cresciuta in un sobborgo di New Orleans, tuttavia, grazie alle sue scelte formative e alla sua tenacia, è riuscita a fare una carriera straordinaria, tanto da essere annoverata tra le più giovani (se non forse la più giovane in assoluto) giudici di Corte Suprema, che è il top della carriera in ambito giudiziario negli Stati Uniti. Ultimo, ma non per importanza, è riuscita in tutto questo pur sposandosi, avendo cinque figli, più due adottati e provenienti da Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo. Una realtà, la sua familiare, che rappresenta un modello, un punto di riferimento, il centro della sua vita, e non ne fa mistero. Sentite come ne parla nel suo discorso di accettazione della candidatura a giudice di Corte Suprema:
Amy Coney Barrett rappresenta, lei da sola, ontologicamente, la falsificazione totale e definitiva di ogni dogma femminista. Il suo ergersi dietro a un podio alla Casa Bianca dice alcune cose molto precise: si può essere donne nella pienezza della propria femminilità, senza alcuna necessità di svilire se stesse o il proprio aspetto. Nel contempo si può costruire per se stesse una carriera dove la propria femminilità conti meno di zero, ma valga una straordinaria professionalità preceduta dal sacrificio di uno studio rigoroso e tenace, con buona pace di quote rosa e simili. Il tutto mentre costruisce con un uomo, ugualmente affermatissimo dal lato della carriera, una relazione cooperativa e paritaria, solida, stabile, basata sul sentimento e su un progetto condiviso. Talmente condiviso da riprodursi cinque volte più due, queste ultime a supporto di persone povere e di colore. Riascoltate il buffo racconto che la Coney fa della propria domesticità: giudice sì, ma anche tassista, organizzatrice di compleanni e supporto durante la formazione a distanza dei suoi figli. Il tutto con la collaborazione del marito, che finisce per essere anche più apprezzato di lei in cucina. A raccontare questi aneddoti, non lo si dimentichi, non è una sciura della piccola-media borghesia italiana, schiacciata dalla pigrizia di scelte formative facilitate, finita a fare un lavoricchio da educatrice in qualche cooperativa sociale, talmente frustrata di se stessa da dover trovare un po’ di senso facendo la fanatica tra le femministe e che, se interrogata, lascia trasparire un tangibile fastidio per aver avuto figli. No: a raccontare il tutto è il probabile nono giudice della Corte Suprema della più grande potenza mondiale.
Ora, provate a immaginare di avere davanti a voi una piccola folla composta dalle più note e settarie femministe che conoscete. Nomi a caso: Murgia, Gruber, Boldrini, Cirinnà, Brignone, Zanardo, Ferrario, Lucarelli, Somma, Boschi, Carfagna, Blasi, Terragni, ognuna tenendo al guinzaglio manciate di mangina e cicisbei scodinzolanti e ben addestrati. Pare un’immagine dantesca di demoni urlacchianti, esagitati, scoreggianti, percolanti la peggiore stolidità ideologica e un livore acido come succo gastrico. Immaginare di sentire il lezzo della pochezza delle loro parole, del veleno dei loro concetti fatti scivolare tra le persone, nella mente delle persone, come la fanghiglia penetra e invade ogni anfratto urbano dopo un’esondazione. Riuscite a figurarvi quest’orrida scena? Ebbene ora contrapponete a questa muta bastarda del nulla, impegnata ogni giorno a trovare alibi, cercare privilegi e scorciatoie per ottenere il massimo facendo il minimo o nulla, l’immagine semplice e giganteggiante di Amy Coney Barrett, della sua biografia, della sua famiglia, di lei e suo marito (“straordinario e generoso”) che si costruiscono carriere folgoranti amandosi, facendo figli (“la più grande gioia della mia vita, anche se mi hanno privato del sonno”), dividendosi i compiti domestici ed educativi. Conta zero che siate d’accordo o meno con le idee della Coney Barrett, varrebbe uguale se fosse una referente del Partito Democratico USA, non è quello il punto. Il punto è la sua vita, il suo percorso personale, il contesto in cui si è svolto, di cui fa parte quel Presidente tanto maschilista da averla condotta a raggiungere l’apice della sua carriera a un’età impensabile per la Corte Suprema USA, più un un uomo vero come marito, coniuge dedito, come è la stragrande maggioranza degli uomini su questa terra.
Amy Coney, insieme a suo marito Jessie Barrett e ai loro figli, si stagliano di fronte a quella piccola e miserabile folla di femministe e basta la loro ombra per farle fuggire guaendo di terrore e rabbia, trascinandosi dietro i loro cavalier serventi, parassiti morali, eunuchi del pensiero e dell’etica. Per noi persone normali quella è invece un’ombra riposante e la prova che non c’è alcuna contraddizione, per uomini e donne, tra l’amare un’altra persona, farci con essa una famiglia e costruire per sé un percorso professionale soddisfacente. Ma soprattutto è l’evidenza che nessuno, uomo o donna, raggiunge nulla in assenza di valori condivisi e di sacrificio. E che dunque ciò di cui vanno in cerca le femministe, oltre al resto, sono percorsi di vita facilitati, corsie preferenziali e la legittimazione di un’esistenza tanto individualizzata quanto svuotata di principi e votata al parassitismo verso tutto e tutti. Perché spaccarsi la schiena e contemporaneamente amare qualcuno e costruirci assieme qualcosa di significativo, come ha fatto Amy Coney Barrett, è dura, molto dura. Troppo dura per delle nullità che predicano male razzolando peggio, al fine di trasformare le donne, tutte potenziali giudici di Corte Suprema, nel nulla che esse stesse sono, per così sentirsi meno sole nel miserabile fallimento della propria vita.