di Alessio Deluca. L’aborto è da sempre un tema estremamente discusso. Dal lato maschile sono tantissimi gli aspetti che potrebbero essere analizzati sotto il profilo storico, sociale, psicologico e legale. L’abbiamo già fatto altrove (e ancora lo faremo), dunque per stavolta ci limiteremo a guardare la questione con la massima (e calcolata) ingenuità, a partire dalle polemiche suscitate dalle nuove disposizioni polacche in materia di interruzione di gravidanza. La Polonia era uno dei paesi con una delle più restrittive leggi sull’aborto, pratica ammessa solo in determinati casi: stupro, incesto, minaccia alla salute e alla vita della madre, malformazione del feto. Pochi giorni fa una sentenza della Corte Costituzionale, per altro presieduta da una donna, ha ristretto il campo, eliminando dal novero delle possibilità i casi di malformazione del feto. “Si tratta”, hanno sentenziato i giudici supremi, “di una casistica incompatibile con la nostra Costituzione, che tutela il diritto alla vita”.
Pare a tutti gli effetti una decisione estrema, difficilmente condivisibile, se non partendo da un arroccamento ideologico-religioso fuori dal tempo oltre che dal buon senso. È sacrosanto che si debba tenere la guardia alta rispetto a derive eugenetiche che sono assai più prossime di quanto non si creda, tuttavia la difesa del “diritto alla vita” non può limitarsi a una tutela della vita purchessia. Esiste, ed è oggettiva, anche una qualità della vita ed è un fatto che non si può ignorare. Imporre l’esistenza a un individuo destinato a una situazione dove non gli sarà possibile vivere la propria vita con pienezza è qualcosa che viaggia al limite della crudeltà, talora anche oltre quel limite. La vita è tale non solo perché c’è un cuore che batte o una mente che pensa o degli arti che si muovono o delle interiora che funzionano. La vita è anche partecipazione attiva all’esistenza individuale e collettiva nella pienezza delle proprie capacità. La casistica delle malformazioni fetali è dunque borderline, delicatissima da regolamentare, e la Polonia l’ha fatto, sbagliando, usando una mannaia.
Sfigate voi polacche che abortite così poco…
Da questo punto di vista, tra l’altro, si è posta da tempo la questione detta del dopo di noi: figli non autosufficienti portatori di handicap gravi, le famiglie dei quali nutrono la concreta preoccupazione su come potranno sopravvivere quando i genitori non ci saranno più. La famiglia è in sostanza un welfare privato che supplisce alle carenze di quello pubblico per ragazze e ragazzi bisognosi di assistenza h24. Come dovrebbero cavarsela quando padre e madre verranno a mancare? Come, dove, da chi e con quali fondi potranno essere assistiti? È una questione annosa tuttora senza soluzione, che però ha dei riflessi sulla lungimiranza indispensabile al momento di concepire: per un figlio che so essere svantaggiato, posso programmare un accudimento a termine? Posso farlo nascere sapendo che prima o poi dovrò abbandonarlo a se stesso? Dov’è il confine fra amore ed altruismo?
La situazione polacca, in ogni caso, aiuta a porre alcune questioni generali relativamente all’aborto, facilmente desumibili dal modo con cui in Italia le pagine mainstream femministe hanno trattato la notizia. In esse si manifesta indignazione per il numero di aborti effettuati in un anno in Polonia (circa 1.100), paragonati con orgoglio e fierezza ai corrispondenti numeri italiani (circa 80.000). Sembra trapelare una specie di “vanto” tra le femministe italiane nell’esibire il mostruoso numero di interruzioni di gravidanza, interventi invasivi, traumatizzanti per la donna. Al di là di ogni posizionamento e al di fuori di qualunque approccio confessionale, il tono usato, guardandolo con ingenuità, è raccapricciante, sembra davvero contrapporre una cultura di tutela della vita, quella polacca, alla celebrazione di un potere assoluto, esercitato con intima soddisfazione se si tratta di dare una forma di morte. Banalizzando, la posizione femminista italiana sul caso polacco sembra dire: sfigate voi polacche che abortite così poco.
Le ragioni “psichiche” non accertabili.
Eppure, mantenendo volutamente un approccio ingenuo alla questione, è lecito chiedersi il motivo di tale divario nei numeri per due paesi con una densità di popolazione paragonabile (sebbene la Polonia sia un paese più giovane dell’Italia). Detto e ribadito il distinguo nel caso di feti malformati, la legge polacca ammette l’interruzione di gravidanza in caso di stupro, incesto, rischio per la salute o la vita della donna. La domanda è: ma perché, in Italia è ammessa per altre ragioni che non queste, che sembrano a tutti gli effetti essere le uniche razionalmente ammissibili? Per quali altri motivi si dovrebbe consentire di troncare la strada a una vita in fieri? Serve un ripasso della Legge 194 del 1978 per capire il divario nei numeri. In Italia l’aborto è ammesso nei primi 90 giorni di gestazione alla donna (corsivi nostri) “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dopo i primi 90 giorni è ammesso solo in caso di pericolo per la vita della donna.
Oltre alle condizioni economiche, sociali o familiari, riveste importanza il rischio per la “salute psichica” della donna. La differenza tra i motivi ammessi in Polonia e in Italia sta cioè nella soggettività, criterio esclusivamente italiano che legittima anche ciò che non può ragionevolmente venire legittimato. Vedi lo stalking e il maltrattamento, dove in assenza di elementi oggettivi è sufficiente che la donna “si senta” maltrattata o perseguitata perché il reato si configuri. A Varsavia e dintorni i criteri sono oggettivi: uno stupro è uno stupro, un incesto è un incesto, una cardiopatia della gestante è una cardiopatia. Da noi oltre alla salute fisica irrompe la salute psichica, accertata a insindacabile giudizio della donna che dichiara il rischio (non la certezza, basta il rischio) che il nascituro possa gettarla in depressione, provocarle scompensi insanabili, renderla insicura, fragile, complessata o comunque farla sbroccare, per dirla col Devoto Oli. Esiste un terzo (cardiologo, pneumologo eccetera) che possa certificare un rischio oggettivo per la salute prima del parto, mentre non esiste un terzo in grado di certificare la possibilità di comportamenti emotivamente disturbati dopo il parto. Proprio qui sta il punto.
Sugli aborti Italia batte Polonia 80 mila a 1.100.
In sostanza la legge italiana ricalca, anche se in modo un po’ bizantino, quella polacca nella versione pre-pronunciamento della Corte Costituzionale, tranne che per le parti che abbiamo messo in corsivo. La differenza tra gli 80 mila aborti italiani e i 1.100 polacchi sta tutta lì, in quelle generiche “condizioni economiche, o sociali, o familiari” e in quel “rischio psichico” dentro cui può entrare, e in effetti entra, tutto e il contrario di tutto. Cosa che non dovrebbe accadere. Non oggi, per lo meno, con tutta l’informazione disponibile che c’è sul tema della procreazione, con la possibilità di “abbandonare” in sicurezza il neonato “indesiderato”, ma soprattutto con il gran numero di metodi anticoncezionali disponibili. Ci si ragioni sopra freddamente e declinando la questione per entrambi i generi: non vuoi una gravidanza sul tuo percorso di vita? Non vuoi rischiare di trovarti a rinunciare a una carriera a causa della maternità? Non vuoi doverti accollare il mantenimento di un figlio che non volevi? Sapete, come coppia, di non essere in condizioni economiche per mantenere un figlio? Semplice: premunitevi. I mezzi ci sono. In molti casi rendono l’atto sessuale meno ludico, in altri sono un po’ invasivi ma, ci si consenta ancora l’ingenuità, è noto che non si possa avere la botte piena e la moglie ubriaca. E se poi qualcosa non va secondo i piani o qualcosa va storto nei sistemi contraccettivi, ebbene esiste una cosa difficile e terrorizzante, come tale una grande opportunità, che si chiama assunzione di responsabilità.
È chiaro che il gap tra i numeri polacchi e quelli italiani è frutto di casistiche in cui la gravidanza diventa “indesiderata” su basi non oggettive. Alle ragioni di quel gap è stato dato un nome, pronunciato forte e chiaro dagli organi d’informazione femminista: autodeterminazione della donna. Termine che esclude d’un colpo la parte maschile in una casistica dove pure l’uomo è stato partecipe attivamente, ma soprattutto che riserva a un solo genere il potere di vita e di morte assoluto e illimitato su un’esistenza in divenire. La chiave sta proprio nel termine “illimitato”. Nel modello polacco il limite c’è ed è l’irricevibilità di ragioni soggettive addotte per sopprimere una vita in potenza. In Italia invece, lo si è visto, i limiti sono infinitamente più ampi, con ciò conferendo alla donna (e solo a lei, sebbene il tutto si incentri su un’entità “prodotta” in due) licenza indiscussa di sopprimere un’esistenza, sollevando da ogni responsabilità se stessa e l’uomo con cui ha concepito (o privando l’uomo di un figlio, nel caso lui volesse tenerlo). Che un solo genere abbia di fatto potere di vita o di morte è brutto da dire e da ascoltare. Ma basta cambiare le parole per rendere tutto accettabile. Lo si chiami allora autodeterminazione della donna, e si potrà guardare con serenità, se non addirittura con orgoglio, agli 80 mila esseri umani non nati in Italia, che soverchiano con la loro superiorità quegli esigui 1.100 di quegli sfigati di polacchi.